Una nuova avventura quella sul palco del Teatro delle Arti di Lastra a Signa (FI), che vede una Giusy Merli immedesimarsi nella scena. Calata nei panni di Mimì, conduce la sua “partita” quotidiana, affrontando le difficoltà e le gioie. Attraversando l’Italia, in “Flash” delineanti frammenti che hanno fatto la storia. Mimì, personaggio scritto da Lina Prosa, (drammaturga siciliana), è la presenza costante. Un terzo occhio, che vede la realtà in tutte le sue sfumature. Testimone durante il delitto di Aldo Moro o durante la perdita di Pasolini. Vigile nei discorsi delle Brigate Rosse o attonita, durante il ventennio fascista con l’incontro di un camerata. Giusy vive tante esistenze, corredate dalla consapevolezza dell’unicità di essere sempre lei stessa la vera protagonista. Ricerca continua in un mondo di maschere o fatto di mere apparenze, qui è sempre e solo Mimì, che vagabonda in un mondo che la ritiene straniera. La forza e la debolezza, la voglia di piangere e di ridere, l’ingenuità con cui libera i pensieri scacciandoli via, come sassi lanciati nel mare, o testarda fidanzata, che sa il fatto suo, anche quando il pericolo di “incidenti”, può scuotere e cambiare il destino. Essere italiana, sentirsi parte di un tutto che etichetta e emargina, manda in confusione e può sconfinare nella pazzia di non riconoscersi, e diventa facile cadere in errori o in blocchi. Mimì spera, ama, è donna che sa affascinare. E’ la sensuale Fornarina (amata da Raffaello), è anima che corre su un filo di poesia, spesso troppo incompreso. Il tempo è l’amico che consola e avvolge come una danza, aprendo la mente e trovando in incontri fortuiti, un nuovo slancio e nuove partenze. Proprio come accade in una stazione: carichi di valige e senza molte aspettative. Proprio allora si verificano le “stranezze” e bellezze della vita. Il movimento conduce i nostri cammini e come Mimì trova Zayra ( interpretata da Sabina Cesaroni – maestra del movimento), e segna il percorso, così noi stessi possiamo trovare le soluzioni, nei luoghi dove non avremmo mai immaginato. Giusy Merli si rivela maestra – guida, nella semplicità di chi cammina e si veste di poche umili cose, attraversando scalzo anche i deserti e addentrandosi nei meandri di questo caotico tempo, ma ricco di determinazione e fame di conoscenza. La storia ci ha lasciato memoria e vuoti, ma solo a noi sta la vera capacità di continuare a camminare e a testa alta. Giocare da protagonisti la carta magica, il jolly che abbiamo in mano e accostarci per divenire quello per cui siamo stati creati: “assi, re, regine o due di picche” o semplicemente testimoni innamorati. Dulcinea Annamaria Pecoraro
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"Ho iniziato per gioco, ma ho avuto la fortuna di avere trovato dei grandi maestri e un po’ me li sono anche cercati. Ora, guardando indietro, c’è un filo conduttore che li lega tutti. Tutti mi hanno insegnato a non recitare, ma a essere vera." 1) Che emozione si prova, sapendo di aver sostenuto un ruolo così importante come la “Santa”, nel film oscar “La Grande Bellezza”? E’ tanto che faccio teatro, cinema poco, però come dicono sono sempre un pò nell’ombra (mai stata famosa, anche se sanno chi sono). Questa per me è stata una bella fortuna. La prima volta che mi hanno chiamata per fare il provino con Paolo Sorrentino, pensavo: “Figurati!!!”…, però ci sono comunque andata. Ero tranquilla e soprattutto non avevo l’ansia da prestazione che a volte mi prende. Ero contenta di conoscerlo. Il nostro incontro è stato (senza scherzi) del cuore e dell’anima. Lui aveva in mente una donna molto vecchia: una centenaria, per lui ero giovane e non sapeva se prendermi o meno, finché qualcuno gli ha suggerito l’idea del trucco. Ci siamo visti tre volte e la prova trucco, durata quasi 5 ore, è stata decisiva. Ho indossato l’abito e così ho iniziato a lavorare con lui e con l’aiuto regista al personaggio. Io sono entrata molto in sintonia e con poco, Paolo, ti fa capire cosa vuole. Mentre giravo ero molto felice, un ottimo rapporto con la troupe, mi sentivo coccolata, tranquilla e stranamente sentivo che mi veniva tutto naturale. Ogni proposta era accettata. Io sapevo cosa Paolo volesse, e dove cercare dentro di me. Mi sono ispirata a mia madre, per certi aspetti della vecchiaia. Paolo diceva: “Questa è una santa inconsapevole, dice cose così profonde, ma con la stessa leggerezza di dire – Passami il sale –“. A me questo ha fatto venire in mente un racconto di Buzzati: “I santi”. C’era un santo in particolare: San Gancillo, che era il santo inconsapevole. Ero presa dalla concentrazione e da cosa facevano gli altri. La vera emozione del personaggio, io l’ho avuta a Cannes e nella “Sala Lumiere” dove, ho visto tutto il film. Fino ad allora avevo visto solo gli spezzoni. Paolo poi, non mi aveva mai dato tutto il copione per intero. Capivo che il ruolo era importante, che faceva parte di un momento di transizione nella vita di Jep Gambardella, ma non avevo capito fino a che punto. Sono rimasta io stessa stupita, poiché quasi non mi riconoscevo. 2) In Italia “La Grande Bellezza” è stato molto criticato, anche non benevolmente. Cosa pensi in merito? Si, ho visto e letto. Il grande successo è stato in America. Riuscire a guardare dentro è difficile. Ci sono molti scorci di immagini e poche parole. Va metabolizzato. La mia stessa parte è piccolissima ma importante. Decisiva per un cambiamento. 3) Tu, ti senti come la “Santa”? No! (sorrisi). Anche se devo dire che c’è un film :“Pulce non c’è”, (uscirà nelle sale il 3 aprile 2014), girato tre anni fa, tratto dall'omonimo libro di una giovane scrittrice: Gaia Rayneri e diretto dal regista Giuseppe Bonito, ove interpreto i panni di una barbona, che in qualche maniera è portatrice di un cambiamento, di buona novella. E’ strano che faccio queste cose. Io sono buddista. Mi sono avvicinata tardi avevo già 40 anni. “Credere che la legge dell’universo è dentro di te e la vita è per te”. Detta così è facile. Tu devi sviluppare il cuore verso gli altri, perché non puoi diventare felice da solo. “Se ti preoccupi del tuo benessere, devi occuparti anche del benessere dei quattro angoli del paese” . Sicuramente l’interesse e questa forma di “cura”, probabilmente in queste due parti : la “Santa”(La Grande Bellezza), la “barbona” (Pulce non c’è), hanno messo in evidenza la mia parte spirituale. 4) Nel 2014, è uscito un altro film: “Mi chiamava Valerio” diretto da Patrizio Bonciani e Igor Biddau con la collaborazione di Ara Solis, Gruppo della Pieve e Fresnel Multimedia. Liberamente ispirato alla vita di Valeriano Falsini, il pentolaio gregario e amico di Fausto Coppi. [www.michiamavavalerio.it ] Come ti sei trovata? Beh bene! Loro sono Amici miei. Io sono la zia di Maria Pia. Vi è Roberto Caccavo (Fausto Coppi) con cui ho lavorato in “Re Lear” e mi ha diretto in “Mario”, Igor Biddau (scenografo da un bell’occhio), Riccardo Sati (Valeriano Falsini) e Sofia Bigazzi (Maria Pia). Sono ragazzi talentuosissimi. Stare con loro è come essere a casa. 5) Preferisci fare cinema o teatro? Sono due realtà diverse che richiedono due diverse concentrazioni. Fare cinema non mi mette ansia come nel teatro. E’ una cosa cui inconsciamente penso che posso rifare. Nel teatro sento quello che i francesi chiamano: il “crack”, che passa quando poi sono sul palco. 6) Tra i tanti tuoi progetti, ce ne uno in particolare che colpisce: “ Re Lear” con Gianfranco Pedullà. Come sei riuscita a catapultarti in un personaggio maschile e forte, come quello di un re? Faccio parte della sua compagnia. Beh questa è una bella domanda. Sin da quando ero giovane, ho sempre fatto personaggi maschili. Sarà per il viso androgeno, scavato. Quando Gianfranco, mi ha proposto questo ruolo, io sorrisi, perché quando avevo quarant’anni, dicevo che da vecchia avrei fatto il “Re Lear”, cosa che si è realizzata. Io sono minuta, piccina, ma quello che si è voluto fare vedere è la fragilità del potere. Ho cercato, nonostante la preoccupazione iniziale, di mettere in scena i “guazzabugli interiori". La parte della follia mi è venuta bene e per il resto sono stata aiutata anche da Marco Natalucci (il buffone) e da tutti gli attori, con cui mi sono divertita. 7) La tua esperienza nelle carceri? Bellissima, soprattutto nel carcere di Arezzo (ora chiuso). Lì c’era una compagnia (non fissa), facevamo un laboratorio, portando avanti una certa idea. Gianfranco Pedullà, è molto bravo nel dirigere. Queste persone, hanno una grande energia compressa, non utilizzata. Chi faceva il laboratorio teatrale, aveva già una predisposizione. Riuscivano a essere così veri, “più di un attore”, da portare sulla scena tutta la loro storia. Mi ricordo di un ragazzo cileno di 30 anni, di una bravura a capacità incredibile. Uno dei personaggi più belli che ho fatto in carcere oltre a “Woyezeck” è stato “Calibano” nella “Tempesta” di Shakespere ma tradotto in napoletano del ‘600-700 con un testo di Eduardo de Filippo. L’umanità di questa gente spacca il cuore e esce l’arte. 8) E con i laboratori per ragazzi? Con loro ho avuto poca esperienza. Non quanto in carcere. Ho lavorato con le medie di Arezzo. E’ difficile, con loro. Mi ricordo di una seconda media. Dovevamo mettere in scena la “La Gabbianella e il gatto che le insegnò a volare” di Sepulveda. Ragazzi che durante il laboratorio si scatenavano. Io urlavo, fino a dire basta e me ne andai. Poi tornai, e mostrai come adulto le mie "impotenze", trattandoli allo stesso pari, dicendo le difficoltà di lavorare con loro. Questo mio "sfogo", li ha poi portati a fare uno spettacolo bellissimo, e a superare anche inconvenienti tecnici, da veri professionisti. Sono entrati in scena alla perfezione. Anche il timido della classe, che interpretava il gatto, si è esibito alla grande. 9) A aprile 2014 porterai a Lastra a Signa (FI) uno spettacolo: “La partita di Mimì”, un quasi monologo, scritto per te dalla drammaturga palermitana Lina Prota. Ci puoi anticipare qualcosa? Lina Prosa, l’ho conosciuta lavorando al progetto Satirycon 2000 di Massimo Verdastro. Massimo ha avuto un’idea geniale, ha dato vari pezzi a drammaturghi contemporanei, affinchè riscrivessero il Satyricon. Ne abbiamo messi in scena 5. L’ultimo di questi , il “Naufragio”, è stato proprio scritto da Lina. Questa drammaturga sta avendo un grande successo ed è ha anche diretto una trilogia “Lampedusa Beach” per la Comédie-Française. Io mi sono “innamorata” di questa donna e della sua scrittura. Quando eravamo al “Piccolo”al Milano io le dissi, “Quanto mi piacerebbe che scrivessi qualcosa per me … e aggiunsi: “uhm, e scusami come faccio a pagarti?”- lei rispose: “Ah, non ti preoccupare, a noi scrittori, ci pagano poco”. “Anche a noi attori” – aggiunsi io. Io pensavo fosse finita lì. Poi mi chiama e mi dice: “Non mi dici cosa vuoi?”. A gennaio del 2013, mi è arrivata per mail “La partita di Mimi”. L’ho letta e l’ho trovata bellissima. Sarà presentata dal 9 al 13 aprile 2014 a Lastra a Signa, ci sarà una rassegna di teatro di nuova drammaturgia, diretta da Alessandro Cevenini e con me ci sarà una danzatrice (maestra del movimento) Sabina Cesaroni (Zayira). C’è anche la storia dell’Italia del ‘900 in “flash”, da Moro, Brigate Rosse, Pasolini. 10) Tu hai iniziato a 29 anni a recitare. Sono 40 anni che reciti. Quale è il ruolo più difficile che hai rappresentato, quello che hai sentito più tuo e quello più lontano da te? Lo sai che è difficile risponderti??! Difficile è stato “Aspettando Godot”. Facevo Lucky, non capivo bene cosa dovevo fare. Ne ho amato più di uno: sicuramente “Calibano”, in carcere e in napoletano (lingua che mi insegnato Bartolo Incoronato, lavorando insieme). Poi tanti anni fa, insieme a Marisa Fabbri e Franco Piacentini, ho imparato tanto. Nelle “Baccanti” con traduzione di Sanguineti, io facevo due personaggi: “Tiresia” e “Cadmo”. Questo è stato un bellissimo lavoro. Il teatro greco insegna moltissimo. 11) Hai mai pensato di scrivere un libro? Non so scrivere io. Non ci ho mai pensato. 12) Hai mai pensato di fare la registra? Per quello ho una capacità. Sono una brava regista d’attore, una “coach”. Non perché mi vanti, ma perché l’ho fatto. 13) Per fare l’attore/trice cosa consiglieresti? A un attore/trice giovane direi di non perdere tempo. Di fare una scuola, ma non di basarsi solo su questa. Di fare esperienze. Io non ce l’ho una scuola, ho iniziato per gioco, ma ho avuto la fortuna di avere trovato dei grandi maestri e un po’ me li sono anche cercati. Ora, guardando indietro, c’è un filo conduttore che li lega tutti. Tutti mi hanno insegnato a non recitare, ma a essere vera. C’è bisogno di inventarsi, di creare. Sicuramente ci vuole forza, tanta determinazione, senza bisogno di scappare dall’Italia. Dulcinea Annamaria Pecoraro |
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