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Leonardo Sciascia - Cronista di scomode realtà - Recensione 

6/12/2015

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E di queste cose io stessa mi meravigliai, quando ancor bimbetta per volere del destino, passai dalle mie montagne innevate all’isola “arsa dal sol fecondo”. Fu allora che iniziai a respirare aria siciliana, che nacque la mia predilezione per le piante grasse, che imparai a sbucciare i frutti dei fichi d’India, che volli gustare ‘a manciata ‘i ricotta, la colazione di ricotta, che  ascoltai quei “suoni greci arabi  latini” e ancora adesso mi piace acquistare gli agrumi con le foglie e tenerli nel paniere di castagno come usano intrecciare in terra di Mugello.
“Ci vuol coraggio a sbucciarli (i fichi d’India), rischiando di ferirsi con le spine”.

Recensione a cura di Lucia Bonanni

Immagine
LEONARDO SCIASCIA
Cronista di scomode realtà.
Raccolta antologica a cura di Martino Ciano
Stile Euterpe vol.1
PoetiKanten Edizioni, 2015



Recensione a cura di Lucia Bonanni

“Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini  dagli occhi azzurri. (Come io non sono) un settentrionale. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia- Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva ereditato da sua madre insieme agli occhi azzurri , mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire “velo del capo” e per indicare un’amicizia strettissima si parla di “due teste in una stessa sciascia”. Mio nonno era stato caruso, uno di quei ragazzini che nelle zolfare siciliane venivano adibiti al trasporto del materiale. Imparò a leggere e scrivere e fino a qualche anno fa molti lo ricordavano per le sue  collere terribili, il suo rifiuto a scendere a patti con la mafia nonostante le minacce”. “Tu sei Leonardo? Tuo nonno era una persona onesta”.
(in L. Sciascia, La Sicilia come metafora).


La figura del nonno, quell’ onestà, “gran virtù soffocata di molti siciliani”, il rifiuto a scendere a patti con  la criminalità organizzata sono punti fermi nel racconto “Nient’altro” in cui “eroe d’altri tempi” per gli uomini onesti è un uomo stanco e solo, un anziano con “radi capelli canuti, lisci” che si considera “un niente mischiato con nessuno”, ma che in realtà è un personaggio di spicco nella trama del racconto e persona degna di gran rispetto nella realtà vissuta.

“Mio nonno dice che a vossia dovrebbero fare il monumento; io lo metterei al centro  di questa piazza… ma perché mio nonno dice che vossia è stato un eroe di altri tempi?”. Una moltitudine di ricordi agitò la mente di zi Ni mentre un’immagine si mescolava ad altre immagini in un crescendo di pathos emozionale. La promessa fatta al ragazzo si fece idea avvolgente dei suoi pensieri. “Cosa gli racconto?”, pensò l’anziano, “ a me sembra di essere nato ieri o di non essere nato affatto” E forse era vero! La sue vicissitudini di uomo e di libero cittadino potevano essere raccontate con poche parole. Quello della sua vita era un racconto breve. Una narrazione con pochi personaggi e fatti scarnificati come parole messe ad essiccare nelle saline dei pensieri nel “paese del sale/che frana/dall’altipiano a una valle di crete”(L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). Alla luce degli accadimenti  non c’era “Nient’altro” da raccontare, se non che dopo mezzo secolo di detenzione era tornato in libertà , una libertà duramente conquistata e che onorava  suo nonno, ucciso per non aver voluto cedere a nessun tipo di ricatto. “Nell’inventar storie vere” è qualità innata di Sciascia ed egli ricerca, insegna, investiga, partecipa attivamente alla vita culturale e sociale italiana e soprattutto scrive libri di denuncia , mostrando il “baratro della storia”. “A ciascuno il suo”, titolo in cui è palese quella figura retorica, detta ellissi, nell’avere di ciascuno “traspare un dolore sommerso”.

“I bambini poveri si raccolgono silenziosi/sui gradini della scuola/addentano il pane nero/gli altri se ne stanno chiusi/ nel bozzolo caldo delle sciarpe” (L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). E se il sale “diventa morte,/ pianto di donne nere nelle strade,/fame negli occhi dei bambini?”(L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese).
Povertà, disuguaglianze di classe, abusi di potere, corruzione, marginalità, omicidi, rapine, attività lecite e illecite si consumano e si reiterano, come scriverà il giudice Giovanni Falcone come “Non frutto abnorme del solo sotto- sviluppo, ma prodotto delle distorsioni dello sviluppo”.
E nel corso del tempo e nel ripetersi degli eventi “quella piovra/dal giorno della civetta/alla scomparsa di Majorana” continua, come scrive Bufalino, nella logica della “liturgia scenica (e) fra le sue mille maschere, possiede anche l’alleanza  simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra” e “uocchiu d’e gghenti”, l’occhio della gente, è anche l’occhio della civetta, animale dallo “sguardo scintillante”, dal grido acuto e stridulo ed anche simbolo di denaro.
I glauks erano le monete ateniesi e la civetta di Minerva, dea della sapienza, è simbolo della conoscenza e della saggezza; gli occhi e il becco ricordano la lettera dell’alfabeto greco “fi”, ma è anche immagine controversa e contraddittoria perché, essendo un uccello notturno, richiama l’idea di morte, isolamento, solitudine, oscurità, come di miseria, di malefici, disgrazie e cattivi presagi.

“Ridono gli altri uccelli tra le fronde/per la strana presenza del rapace/notturno in pieno giorno”, ossimorica presenza, antitesi tra buio e luce, contrasto tra suono e silenzio in una perifrasi narrativa che rimanda all’omicidio del sindacalista ad opera della mafia. Ma nel “giorno che irrompe ciarliero” gli uomini vanno verso i campi, obliando tutte le facoltà dei sensi e “con scarse propensioni di dignità” si chiudono nel più aspro silenzio. Intanto “i morti vanno, dentro il nero carro/incrostato di funebre oro, col passo lento dei cavalli” (L. Sciascia, I morti) mentre le donne  al loro passaggio chiudono le imposte e i negozianti lasciano appena aperto uno spiraglio per poter spiare il dolore dei parenti. “Le cose dei morti, i pupi, la frutta di pasta di mandorle che i bambini la mattina del due novembre cercano e trovano in qualche angolo della  casa . I morti che portavano i doni; i vivi che tra loro, a catena si ammazzavano”
(L. Sciascia, Novembre a Palermo).
Qua e là nei versi degli autori presenti in antologia, echeggiano i versi di Quasimodo “ride la gazza, nera sugli aranci”, “tra muschi grami, a supplizio/splende la pietra livida”, “dove mi hai posto/amaro pane a rompere”, come echeggiano quelli di Sciascia, “il silenzio è vorace sulle cose./S’incrina, se flauto di canna/ tenta vena di suono, e una fonda paura dirama” ma echeggiano anche quelli di Pavese “sei la terra e la morte./La tua stagione è il buio/ e il silenzio”. Il silenzio… parlare a cenni è arte che i siciliani inventarono a seguito della proibizione fatta da Jerone che, temendo qualche congiura, vietò ai siracusani di parlare fra loro. “Il parlar co’ cenni, con un moto del capo, della bocca, delle spalle, e soprattutto delle mani, è arte propria dei Siciliani che senza profferir parole, anche a notabil distanza, con un sol cenno spiegano i concetti della mente” scrive A. Mongitore in “Parlare a cenni”, “Il signor padre tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino alla Vicaria che ti giovava lo scantu ma non parlasti perché sei una testa di balata, non hai volontà…” dice D. Maraini in “Il silenzio di Marianna”.
E di queste cose io stessa mi meravigliai, quando ancor bimbetta per volere del destino, passai dalle mie montagne innevate all’isola “arsa dal sol fecondo”. Fu allora che iniziai a respirare aria siciliana, che nacque la mia predilezione per le piante grasse, che imparai a sbucciare i frutti dei fichi d’India, che volli gustare ‘a manciata ‘i ricotta, la colazione di ricotta, che  ascoltai quei “suoni greci arabi  latini” e ancora adesso mi piace acquistare gli agrumi con le foglie e tenerli nel paniere di castagno come usano intrecciare in terra di Mugello.
“Ci vuol coraggio a sbucciarli (i fichi d’India), rischiando di ferirsi con le spine”.
Ricordo che gli uomini passavano intabarrati nei loro mantelli neri, con la coppola tirata sugli occhi, salutavano con un cenno del capo e i loro cavalli lasciavano impronte sulle trazzere assetate e nei vigneti. Spesso sentivo raccontare di brigantaggio e morti ammazzati e soltanto negli anni della mia autoformazione imparai il significato del termine “separatismo” e seppi della “rivolta del pane”, della tragedia dei carusi, “giovani fiori gialli tra pietre vendute ai padroni”, e dei fatti di Portella della Ginestra. Anni dopo i media mi mostrarono immagini crude e mi sentii derubata dall’usura del tempo lineare e dallo scempio del tempo ciclico. Sentivo la libertà quale elemento fondante di ciascun  uomo;  per questo anch’io volli contare i miei 100 passi e scrivere versi di pace mentre in  via Nortarbartolo  lasciai un biglietto insieme ad altri biglietti su quell’albero, emblema di legalità e voglia di cambiamento. Ma di cosa è fatta quella “sicilitudine” ,di cui parla Sciascia,  in una realtà storica dove popoli diversi, non dissimili dai rapaci che volano “Sotto le rocce di Tindari”, si spartirono le bellezze dell’isola e la paura “storica” divenne paura “esistenziale”! Certo la posizione geografica dell’isola al centro del Mediterraneo è un punto strategico che la rende aperta ad ogni azione di conquista e come scrive ancora Sciascia “lo sbarco degli eserciti anglo-americani nell’isola, il 10 luglio del 1943, avveniva in condizioni quasi identiche a quelle dello sbarco degli arabi il 6 giugno dell’827 con l’isola come sempre sguarnita di difese, lo spirito pubblico prostrato da un’amministrazione rapace e corrotta”. E, se è vero che “a furca è fatta p’o poviru”, la forca è fatta per il povero, è anche vero che l’isola è chiusa nel guscio di se stessa e si lascia travolgere da idee che non affermano nessuna verità ed è sempre più assetata di certezze, sempre più affascinata dalle contraddizioni e dalla sofferenza come dalla simulazione e dalla maschera.
Le fonti della sua passione intellettuale sono da ricercarsi in Demetra, Core e Aretusa , in Ciullo d’Alcamo e Giacomo da Lentini, nella pietra lavica del maestoso Etna, nei mosaici di Monreale e nel mito della roba  come nelle “grotte aride (dove a volte) vengono rinvenuti corpi privi di anima”.

“Già. Le due donne hanno reagito. Non sanno che da queste parti non si scherza…” perché in questa terra “più si fa finta di non sapere e meno si rischia la pelle” come è successo al notaio Manni, alla maestra Livato e a Michele che è tornato a casa , interrato in un vaso di fiori. “Ma lo sguardo di Sciascia andava oltre” così tanto oltre da scrivere che “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma”. In quelle “Isole nell’isola” esiste una radice di tristezza e quel senso tragico della vita che talvolta sfocia nel sentimento di solitudine che fa sentire stranieri in patria. “Diciam dunque che l’isola di Sicilia è la perla del secolo per abbondanza e bellezze… e vengono da tutte le parti i viaggiatori e ad una voce la esaltano” (Edrisi, Della Sicilia) e en esaltano ance la fiera bellezza delle donne,  ne lodano il ruolo in seno alla famiglia, ne ammirano la posizione centrale nelle responsabilità sociali, donne che osano parlare con voce rude e misurarsi con gli uomini nel dramma popolare delle faide tra famiglie, del  delitto passionale e gli amori impossibili, amori incarnati nel verismo di Alfio e Mena, di Gesualdo e Diodata.

Tuttavia c’è anche da dire, come ebbe a scrivere Gramsci, che “la Sicilia conserva una sua indipendenza spirituale e questa si rivela più spontanea e forte nel suo teatro (che) è vita, è realtà, è linguaggio che coglie tutti gli aspetti dell’attività sociale, che mette in rilievo un carattere di vitalità.

Della “questione” meridionale si continua ad avere l’impressione di una carte-souvenir e a prenderne nota a margine della pagina della partecipazione sociale.

“Sto a far camorra sulle cose, seduto/ al sole d’aprile che in me torna/a un suo azzardo di sentimenti e di inganni/Il paese, non lontano,  sembra affondare/ nel verde: di là di questo gioco/pieno di voci, è solo un paese di silenzio” (L. Sciascia, Aprile). Scrive Lorenzo Spurio a riguardo delle “Favole della dittatura”: “Simile attestazione alle “favole” sciasciane secondo me vale di più di ciascun saggio, libro, studio, o guida di lettura sul testo in questione in quanto Pasolini con strepitosa chiaroveggenza e una disarmante predisposizione ermeneutica ne affresca il contenuto con onestà, connotandone anche la forma… Pasolini gioca con le parole “favole” e “dittatura” chiamando il lettore alla riflessione”, “Ecco allora che la scrittura rafforza l’amore per la democrazia, se pur ammalata  da sistemi corrotti e devianti e non di ordine piramidale bensì di natura reticolare (in) un carnevale di maschere che dividono quell’esserci ontologico tra il subire e il fare, tra protagonismo e antagonismo”, conclude Iuri Lombardi  nel suo saggio antologico mentre per Martino Ciano,  Curatore del volume,  “c’è chi costruisce progetti che magari non finiranno sui tavoli dei baroni ma che danno testimonianza ai posteri che c’è altro.”

“Leonardo Sciascia. Cronista di scomode realtà”, sono convinta che si è sempre cronisti di scomode realtà allorchè si coltivano idee di libertà, giustizia e uguaglianza e il potere della scrittura si fa denuncia; quando si dà  ampio respiro a idee di vera fraternità, non si seguono mode  e si diventa voci fuori dal coro; quando si ha paura e non si cede a vessazioni e ricatti; quando si è in stretto contatto con la nostra solitudine di Uomini reclusi nel gorgo dell’indifferenza; quando i nostri ideali sono macigni sul cuore per chi cuore non ha  e le speranze fino allora coltivate, sembrano svanire; quando si è lasciati soli nel presente; quando si è ben consapevoli che per la  fede di onestà anche altri prima di noi sono stati lasciati soli e altri dopo di noi lo saranno  ancora perché “la verità è (sempre) ai margini dove pochi la cercano”. 
Lucia Bonanni

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L'opossum nell'armadio di Lorenzo Spurio - Recensione di Lucia Bonanni

2/13/2015

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"È anche una pagina bianca, una tela bianca su cui sono caduti i segni grafici del titolo a significare una specie di archetipo dell’assoluto, lo spazio labile ed evanescente della mente su cui si è posato il tratto grafico di un armadio in stile antico , stilizzato nelle linee, ma angosciante per i rimandi di senso; un disegno preparatorio di un quadro più ampio, allusivo, ad indicare un ingresso verso l’ignoto, il vuoto, il niente, l’illusione e l’oblio che é la mente umana."

Recensione a cura di Lucia Bonanni

Picture
“L’OPOSSUM NELL’ARMADIO”
di LORENZO SPURIO


Dati 2015, 200 p., rilegato
Editore Poetikanten
(collana Orsa maggiore)


RECENSIONE A CURA DI LUCIA BONANNI

“Tutti abbiamo una vita interiore. Tutti sentiamo di far parte del mondo e nello stesso tempo di esserne esiliati. Bruciamo tutti nel fuoco delle nostre esistenze. Abbiamo bisogno di parole per esprimere ció che abbiamo dentro.” (P. Auster) E Spurio riesce a fissare ogni parola dei suoi racconti sulla pagina, in un miraggio, in un dubbio, in un grano di luce, nei cuori appassiti, nei silenzi del tempo, tra le spume del mare e negli sbuffi di vento per comunicare ció che hanno dentro i personaggi delle sue scritture che altro non sono che lo specchio letterario di quelle persone in cui incontriamo noi stessi. Se ne “La cucina arancione” la dominante cromatica erano i due colori primari, il giallo e il rosso, mescolati insieme a formare l’arancione, in  questa nuova fatica letteraria, “L’opossum nell’armadio”, la dominante cromatica é il bianco.
Il bianco é dato dalla somma convenzionale di tutti i colori dell’iride, ma in esso tutti i colori scompaiono perché tale colore é un muro di silenzio, un non-suono, é la pausa tra una battuta e l’altra di un’esecuzione musicale che preclude ad altri suoni. Il bianco é uniforme e immobile, ma sa addolcire i dissidi di una vita difficile; resta pur sempre un topos pauroso, incognito, vuoto, indefinito, ambiguo, rifugio anche del proprio doppio mostruoso. Colore che spaventa gli artisti  perché crea l’angoscia della pagina e della tela vuota, una superficie in attesa di un segno, di una parola, di un colore. I poeti futuristi usarono gli spazi bianchi in maniera forte e visiva per dare maggior rilievo alle analogie mentre per i poeti ermetici gli spazi bianchi rappresentavano pause lunghe, attesa, silenzio. Nelle arti visive il rapporto tra vuoti e pieni crea tensione e immaginazione, infatti l’uso del chiaroscuro é finalizzato ad inserire le figure nello spazio; in letteratura il vuoto coinvolge chi legge nella narrazione. L’ambiguitá del colore bianco é annullamento, quiete, riposo dall’infelicitá e precorre le maggiori opere della letteratura fantastica per cui il contrasto che si nota in una certa letteratura “perturbante”  non é il bianco opposto al nero, che é un non-colore, ma che fa risaltare qualsiasi colore, ma é il bianco opposto al rosso che é il colore del sangue, figure al contempo di contenuto e di significato, rintracciabili nelle opere di M. Shelley, B. Stoker, J. Verne, E. Melville. Nell’antichità classica la bellezza  era Leukos e Omero ci dice che bianche erano le braccia di Nausicaa; ma candido é anche l’abito delle spose e quello dei comunicandi; di un bianco mortale sono gli spettri, il viso e la camicia dei condannati, le solitudini glaciali e il freddo, i denti del vampiro, la pelle della balena bianca, ed anche la dentatura dell’opossum che ha denti acuminati e taglienti. Chi ama il bianco tende al fatalismo, ma non per questo é privo di idee creative e sa andare oltre il visibile. Come ho giá detto, a dominare il testo di Spurio é proprio il colore bianco, dalla copertina a quelle pagine interne che fanno da spartiacque tra un racconto e l’altro , fogli bianchi a creare suspance , pausa, attesa e dove la definizione scientifica del piccolo marsupiale, l’opossum,  fa da contraltare e da nota introduttiva al titolo di ogni singolo racconto. Nella narrazione il bianco è per lo più alluso, evocato e soltanto poche volte nominato come nel caso della rosa bianca, delle particole dell’ostia, della velina dei confetti, delle foto in bianco e nero… La stessa copertina è uno spazio bianco, una distesa di ghiacciai millenari, le cime innevate, una maschera veneziana, il vestito di Pulcinella e il viso di Pierrot. È anche una pagina bianca, una tela bianca su cui sono caduti i segni grafici del titolo a significare una specie di archetipo dell’assoluto, lo spazio labile ed evanescente della mente su cui si è posato il tratto grafico di un armadio in stile antico , stilizzato nelle linee, ma angosciante per i rimandi di senso; un disegno preparatorio di un quadro più ampio, allusivo, ad indicare un ingresso verso l’ignoto, il vuoto, il niente, l’illusione e l’oblio che é la mente umana. Ma è anche un richiamo ineludibile alla lettura che essa offre e riesce a mediare. Il significato intrinseco delle diverse definizioni scientifiche dell’opossum si palesa solo a posteriori con epifanie intuitive, manifeste ad una seconda lettura veramente analitica, successiva ad un primo approccio che si appoggia alla globalità  della narrazione. Ogni citazione trova posto in cima alla pagina un maniera da lasciare vuoto lo spazio bianco per creare attesa e dare modo al lettore di annotare le proprie impressioni e creare un sunto introduttivo delle caratteristiche di ciascun personaggio coinvolto nella storia e completamento del titolo stesso. Quelle che Spurio enuncia sono come proporzioni matematiche del tipo 36:9 = 24:x e in cui esiste sempre un’incognita da risolvere e ciascuna caratteristica del marsupiale si rivela non solo in linea col titolo del racconto, ma ambedue si annullano e si completano a vicenda in una circolarità temporale. Ed ecco allora che la coda prensile rimanda alla corda con cui il povero Saverio pone fine alla propria vita, è un animale che patisce la luce sta a comportamenti e fatti che non avvengono alla luce del sole e sono attuati da animi scuri, è un animale opportunista rimanda al cinismo del protagonista che da bravo giovane qual era, divine un approfittatore senza scrupoli. Ancor prima dei racconti Spurio colloca citazioni letterarie a lasciar presagire le tematiche del testo: “… non avrei potuto chiederlo a qualcun altro perché dopo tutto era sangue mio” e “Il manicomio è pieno di fiori, ma nessuno riesce a vederli” sono i periodi estrapolati dalle opere di  J Laughlin e M. Tobino. Quindi sangue e mente, le due essenzialità dell’essere umano , quali argomenti introduttivi e “nervatura psicologica dei personaggi”; quindi il colore del sangue, il rosso, e quello della mente, il bianco, a delineare i contenuti di un testo che si configura come una sorta di diario, scritto non dall’autore, ma dagli stessi protagonisti-persone “apparentemente slegati fra loro, ma uniti da un senso esistenziale” all’interno di quel manicomio chiamato vita. “A volte cade un nome in questo spaventoso deserto, e ogni granello di sabbia fiorisce” (E, Canetti).
“Recuperare le strutture di significato, il segno cifrato dell’angoscia e dell’invisibile e dell’oltre realtà che ci circonda”(E. Borgna) richiede di attenzionare gli orizzonti tematici di ombre, contraddizioni, antinomie, speranza, disperazione, possibilià, impossibilità, angosce. deliri, naufragi, trionfi. L’uomo inserito nei rapporti con la comunità diviene consapevole della sua persona, della propria coscienza e della propria intimità per cui la solitudine come scelta personale e come libertà di scelta nei confronti di certe situazioni, smorza il sopraggiungere del disagio e favorisce la riflessione. L’angoscia è corrosiva e spesso è la solitudine che innesca comportamenti devianti ed è sempre la solitudine come lontananza e separazione dagli altri a portare solitudine interiore in cui tutto si riflette in modi ambigui e abbaglianti da cui si liberano sofferenze acute e dolorose. Ma anche”solitudine di nascondimento e come difesa dalle angosce e dalle aggressività spietate e opache”(E.Borgna). “… fuggi nella tua solitudine! Io ti vedo assordato dalla fracasso dei grandi uomini e punzecchiato dal fracasso degli uomini piccoli” sono le parole di F. Nietzsche a dire la propria condizione. Nell’isolamento l’individuo fa esperienza di vuoto che tende a riempire con forme esistenziali effimere e prive di senso. “La solitudine e l’isolamento come metafore dell’ansia. Nella solitudine il tempo interiore scorre nella sua tensione di passato, presente e futuro, nell’isolamento si frantuma e passato, presente e futuro si rincorrono inutilmente”.(E.Borgna). “Sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: il presente del passato che è memoria, il presente del presente che è visione e il presente del futuro che è attesa” dice S. Agostino. Ma nel nelle vicende dell’esistenza e nel linguaggio delle cose, l’ansia, che fa parte della vita, può far emergere possibilità nascoste e nuove negli individui che presentano sintomi di tal genere anche perchè “la sensibilità e l’intelligenza sono molto più alte e questo accresce la sofferenza”(E.Borgna) e conducono ad uno Stimmung (stato d’animo) in cui “Quando tu fissi Medusa, è lei che fa di te quello specchio dove,trasformandoti in pietra, ella guarda la sua orribile faccia e riconosce se stessa nel doppio, nel fantasma che tu sei diventato dopo aver affrontato il tuo occhio”. (J.P. Vernaut).
Nel testo di Spurio ci sono le tante persone “lontane dal rumore della terra e dal silenzio del cielo”(F. Pessoa), ci sono i vagabondi dell’anima, i reitti, i derelitti, ci sono quelle fasce sociali emarginate a cui non si dà spazio in un programma di aiuto e reinserimento nel tessuto etico-sociale. Si potrebbe anche eccepire, dicendo cosa ha che vedere il discorso sull’ansia, se quella che si nota nei racconti è una gamma di comportamenti per lo più dettata da veri e propri istinti. Però c’è da dire che l’istinto, che deriva dal verbo “eccitare”, è la spinta ad agire in un determinato modo, è un impulso, un’esigenza naturale senza l’intervento del ragionamento e che determina le conseguenti reazioni.
“La contemplazione del tempo è la chiave della vita umana. È il mistero irriducibile sul quale nessuna scienza fa presa”(S.Weil) e sono “Le esperienze letterarie come quelle artistiche (che) ci fanno cogliere immagini diverse e radicali dell’ansia e dei modi di viverla… e le esperienze poetiche e narrative ci consentono di viverle come condivise  e come vissute da altri in una circolarità che oltrepassa la distanza del tempo  e dello spazio”(E.Borgna).
“Nella casa tutto rimaneva fermo ai tempi andati (e) l’olio si guastò dentro quei silos di acciaio” (da racconto Livello –1). L’immobilità del tempo che si protrae nel piano sotterraneo, ovvero nel livello –1, in cui la famiglia aveva riposto sempre cianfrusaglie; la fissità del tempo del vecchio pentolame di rame che contrasta con oggetti della modernità; lo stereotipo del tempo che rende indifferenti al dramma interiore, vissuto da Saverio allorché è costretto a licenziare del personale; l’inesorabilità del tempo che esplode nella violenza delle immagini che Manolo è costretto a vedere; la crudeltà del tempo che innesca una certa insensibilità nell’animo di Mariuccia che “pianse qualche giorno, ma poi tutto tornò come prima; le fauci spalancate del tempo “in (quella) cantina (dove) i vetri infranti non vennero rimossi e nessuno vi si recò più”.
“Quando la cattiveria trova validi alleati, allora si è spacciati” e Valentina si ritrova a dove subire tormenti e offese con momenti di esclusione e profonda solitudine perché “era bastato un attimo per catapultarla nel mondo infelice delle donne, manipolate dai vigliacchi inganni degli uomini”. Lei che mai aveva incespicato a causa di quella incoerenza emotiva che contraddistingui gli adolescenti; lei che si era persa a fere una cosa senza pensare e non aveva fatto molta resistenza a Renato, suo coetaneo, che altri non era,se non un “ingannatore seriale; lei che “era stata uan conquista maledettamente facile” e adesso vedeva le sue foto sui cellulari degli altri compagni; lei che aveva provato grande vergogna, ma che poi era tornata a rinascere proprio come l’Araba Fenice. (dal racconto Un paio di scatti).
”… e col ricavato me ne andai con i miei amici a Forte dei Marmi. Non riuscii a bagnarmi in quell’acqua, sapendo che la diffusione della nonna ormai era completa e che abitava  ogni parte dle pianeta”. In questo racconto, Dal fiume al mare, Spurio più che trattare il tema della morte, tratta quello della sepoltura; ne “La cucina arancione” lo fa con ironia e una punta di scetticismo, parlando dell’ibernazione, ma qui affronta quello della cremazione ed il protagonista pur non avendo verso di lei un affetto profondo per “una questione di intenti taciuti, di messaggi empatici, (per) un sapersi guardare negli occhi e accettarsi per come siamo” si costruisce come persona che dimostra pietà e compassione per la nonna defunta  e si distingue per “un qualcosa di indignato” verso le cugine che per mancata accortezza fanno scivolare l’urna e spargere la cenere sui tappetini dell’auto. (dal racconto Dal fiume al mare)
La definizione dello yapok acquatico richiama l’acqua, sia essa di fiume che di mare; l’uno come metafora della vita che scorre e l’altro come simbolo della vita nel suo ritmo immutabile, ma anche di nutrimento, di maternità, di misteriosità dell’animo e desiderio di entrare in contatto con le proprie emozioni.
“ Di là del finestrino sfilava un mare scuro e fisso, difficile da comprendere del tutto. Alla mente non affioravano ricordi e quell’acqua oleosa sembrava pretendere alla mia coscienza una condanna spaventosa: l’annegamento”. Studente in medicina, il protagonista del racconto Due o nessuna, si impegna in ogni modo a trovare un rimedio efficace per il “riavvio del sistema cognitivo” della propria madre che ha perso la memoria, “nostra coscienza e nostra ragione”, e poi, preso dallo sconforto, la asfissia col gas ,  tenta egli stesso il suicidio e alla fine, pur non ricordando più nulla,  cerca di “far capire al mondo che (mia) sua madre era già morta da tempo e che (io) lui non (sono) è un assassino”.
“Mi ero ribellato. Qualcosa dentro di me aveva deciso di mettere fine alle caricature del mio compleanno.” E il ragazzo di buona famiglia, dalla reputazione immacolata, si defila, cerca degli escamotage per negarsi ai parenti, diviene insofferente, se ne va a vivere per conto suo e proprio mentre girovaga alla ricerca della “calma interiore” si scopre “quale animale opportunista” verso le “seducenti professioniste del lavoro più antico del mondo” mentre egli stesso le ricompensava adeguatamente. Così, per propria convenienza, convince la ragazza a “continuare il suo lavoro” cosa che a lei “sembrò una buona idea” senza minimamente pensare che “aveva solo cambiato città e padrone” mentre lui, l’uomo dabbene, lascia gli studi universitari, si trova un lavoretto  e passa le ore a casa a sorseggiare birra, “visto che il buon stipendio di Klara consente (loro) di vivere agiatamente”. (da L’ultimo compleanno).
“A sedici anni aveva già letto più di quaranta romanzi e non sapeva chi fosse sua madre”. La sua era una vita monotona, triste, solitaria, talmente immutabile e vuota che un giorno che arrivò persino ad immaginare che dietro al bancone del bar a servire la Coca Cola non ci fosse una vecchia arcigna, ma  Luana, la bella ragazza, con la quale poteva parlare e confidarsi. Certo quella era soltanto una visione “smelancolata” come le circonferenze che cercava di tracciare a mano libera e “Le due valigie”, lasciate in eredità dalla nonna in cui si aspettava di trovare una cospicuo vitalizio che permettesse a lui e al padre di condurre una vita più rilassata. Continuò comunque gli studi e all’università non scoprì “una legge sulle circonferenze smelangolate”, ma dalla letteratura imparò molto di più.
“La vita è ciò che immaginiamo in essa”, dice F. Pessoa, e Spurio non dimentica di trattare l’inquietudine e il disagio  in modo partecipe e accessibile per veicolare temi e contenuti quantomai attuali e lo fa con grande maestria senza mai perdere di vista il piglio felice della propria scrittura. All’interno dei  dialoghi narrativi  di questa silloge, “dal taglio leggermente più intimista”, non ci sono i vari Franknstein, i Dracula, le Moby Dick, le ballate dei vecchi marinai, gli spettri luminosi e neppure il gusto per l’orrido, ma tali stralci di contenuto appaiono sotto forma di ansia, solitudine, abbandono, pazzia, indifferenza, distanza, cattiveria, cinismo, violenza di genere, erotismo,  sfruttamento, indifferenza, atti di carattere che sfociano in equilibri fugaci, tradimenti, pedofilia, suicidio, disagio giovanile, vulnerabilità,  isolamento, solitudine e conflitto  interiore. Attraverso la connaturata sensibilità e l’attenzione alle problematiche sociali, l’autore delinea un quadro autentico del dinamismo sociale, vero nella stesura dei contenuti che talvolta possono fornire motivo di sconcerto, ma che alla fine si rivelano sempre discreti nella forma didascalica per  profonda riflessione in un  progetto che non è soltanto narrativo, ma anche scientifico.  E non manca nelle parole di Spurio l’attenzione all’ambiente, alle città, ai luoghi, all’ecologia, ai danni ambientali, ai disastri,  alle marginalità ed egli ne scrive in maniera sobria, discreta, velata, quasi accennata. Nel racconto “L’ultimo compleanno”, fa muovere i suoi personaggi in una città, associata all’immaginario collettivo per il sisma avvenuto nel corso dell’anno 2009: L’Aquila. L’autore vi richiama l’attenzione per dire che, si’, gli eventi che l’anno investita, sono stati assai disastrosi, ma che ancor più disastroso è stato il terremoto burocratico che non ne ha permesso una vera e propria ricostruzione in un “paese di pozzi, dove sempre si beve l’acqua con la paura che sia avvelenata”(da F.G. Lorca a pag. 93 del testo), “Eppure (ognuno come) l’erica resiste, rimane attaccato alla (propria) terra, sempre e comunque, (dal film Cime tempestose a pag. 45 del testo).
Onorata di questa ulteriore lettura, per richiamare ancora una volta il bianco nella simbologia della neve e in quella del mare e rendere omaggio all’autore per questo nuovo lavoro, “Loppossum nell’armadio”, testo di grande valore scientifico, letterario e umano,  termino con i versi di due  poeti del ‘900, suoi conterranei: Paolo Volponi e Franco Scataglini: “Sono scesi i passeri a branchi/dai calanchi di neve;/si sono posati tutti insieme/sulle peste davanti a casa/come se la tua veste/tenessero per gli orli,/sfrenati nel volo/quasi per una pena nel cuore”.
“Le case sopra un lembo/de scoio, i pini a vento;/ansava el mare,/ el grembo de l’aria in movimento”.
                                                                                                   
                                                                                                            
                                                                                                            Ad maiora
                                                                                                         Lucia Bonanni



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Neoplasie Civili di Lorenzo Spurio - Recensione di Lucia Bonanni

11/4/2014

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Le poesie di Spurio “grattano dentro” a tal punto
da grattare via tutta la crosta fino a far sanguinare l’anima,
in maniera intensa, profonda, sensibile e puntuale,
attraggono e proiettano verso dimensioni paraboliche di intensa umanità.

Recensione a cura di Lucia Bonanni

Picture
Neoplasie civili
di Spurio Lorenzo
Dati2014, 72 p., rilegato
Editore
Agemina Edizioni   

     

“La copertina! Sì, la copertina! Osservate bene la copertina, quando scegliete un libro da leggere. Nella composizione dell’immagine ponete attenzione ai colori, alle geometrie, al dinamismo delle linee e poi ricercate il contenuto, la forma, il punto di interesse e le linee di forza che attraversano l’immagine stessa. Leggete bene il titolo, soppesatelo, immergetevi in quelle parole e lasciatevi trasportare dall’onda emotiva che sono capaci di suscitare. Non dimenticate di guardare il tipo di carattere usato, la dimensione con cui è scritto e la disposizione nello spazio della pagina.

Trattate il libro con cura e sfogliatelo con delicatezza. Leggetelo e gustate parola dopo parola”.

Era la solfa che ogni giorno propinavo agli alunni per indirizzarli alla lettura.

Ed è il medesimo criterio che ho seguito io stessa, quando mi sono trovata a leggere il testo “Neoplasie Civili”, “prima prova poetica” di Lorenzo Spurio, edito nelle Edizioni Agemina.

Nella dominante paesaggistica della copertina “l’aria (è) dura e avara”, si erge e circonda un binario con le traversine di legno e il fondo dissestato, la massicciata intrisa di catrame come lo è l’arenile in cui si insinuano le acque di un pelago che non è certo un locus amoenus e, similmente ad “Alice nel paese delle meraviglie”,  potrebbe anche configurarsi nel lago creato con le lacrime dell’Umanitá, per i troppi affanni diventata ad un tratto minuscola, e che adesso affoga con spasmi e dolori. È un luogo- soglia con quella costa scura e il tramonto offuscato da nuvoloni neri.

Quello che si vede è un fotomontaggio e il binario, ripreso con la lente di un grandangolo spinto , più che di rette che vanno a due a due, si assimila a rette divergenti che possono avvicinarsi o allontanarsi, secondo l’idea, al rimestare cupo delle acque. Però, se si pone il libro su quello che è il lato minore del rettangolo, allora qual binario può anche dare la sensazione di una “Stairway to heaven” che magari non giunge fino alle Stelle fisse, ma è pur sempre paradiso , e i colori foschi sono soltanto  le scorie lasciate sul terreno dalle anime ormai vestite di bianco che si elevano verso il sublime. Dualitá vita- morte in questa rappresentazione per immagini, un inno alla vita che si snoda nell’intero percorso dei versi che Spurio scrive con sincerità d’animo e di cuore. E poi il titolo con tutte le implicazioni di senso a non lasciare spazio ad altro e quel colore di fiamma ardente che richiama passioni e deliri a dire tutto il disagio esistenziale dell’Umanità, evocato dalla precisione lessicale che in un attimo trafigge gli occhi e il pensiero.

“La poesia è la vita che abbiamo dentro”, dice Alda Merini, ma per scrivere serve anche l’ispirazione. In questo caso il movente che porta Spurio a comporre questi versi è riconducibile a finalità di ordine sociale e, attraverso “Quelle che sono le frasi motrici del libro”, riuscire a trasmettere “Un messaggio di speranza e la necessità di unione e di perseverare anche se si naviga in cattive acque in un mondo in cui tutto è cupo e appestato”, dimostrando impegno e coraggio nel dire cose che nessuno vuol sentire, facendo del testo uno strumento di analisi di un’esperienza emotiva vera e complessa.

Spesso “a las cinco de la tarde” in questo mondo che si fa arena, si consumano eventi tragicamente imprevedibili che non destano ansie in coloro che, per apatia indifferenti a quanto succede, nei pressi della plaza si limitano a consumare coda con patate. Non a caso a pagina 5 si evidenziano i versi di Franco Matacotta, conterraneo dell’autore, insegnante, poeta, scrittore, saggista, da sempre impegnato nelle varie problematiche sociali, conosciuto ai più per la relazione con Sibilla Aleramo, la venerata “Alma Mater” che gli permise di studiare i Taccuini inediti campaniani, da lui poi pubblicati in “Prospettive” e “Taccuini”.

“La verità è un accetta che spacca il bue per la spina dorsale”, dice lo stesso Matacotta nelle pagina di “Neoplasie civili” e Spurio ben sa che la verità non la vuol sentire nessuno e sa anche, come lui stesso scrive, che  “La battaglia si vince solo intentandola”. Ecco quindi che “al cominciar de l’erta”, come duca prende per mano il lettore, lo guida nel solco dei versi, lo fa girare, lo modella, lo plasma, lo rende muto, malleabile, lo sorprende, lo confonde  e lo inganna; alla fine, novello Ulisse, scalda l’arco alla fiamma, lo lavora, lo ammorbidisce e poi deciso lancia la freccia attraverso le scuri allineate, qui ravvisate nei versi a tirar “Giù la serranda” del componimento, facendo “tremare le vene e i polsi” per indurre il lettore a districare quel groviglio di emozioni che si impossessano dei sensi. “Le lacrime di una madre non trovano fine”, “La gente piangeva, stringendo una bandiera rossa”, “ I bambini rubavano il mare/con gli occhi bagnati”, “E le oche spargevano merda sul prato”, “l’abito del torero/non aveva luccicato”, “Dio piangeva a fiumi, /genuflesso su carboni ardenti,” versi che fanno trasalire, che lasciano gli occhi umidi e il singhiozzo a fior di labbra.

Non difettano tali componimenti di riferimenti allusivi a quelli che sono gli animali infernali onde connotare superbia, avidità e lussuria, mali che attanagliano la società in una morsa neoplastica di indifferenza etico-morale. Nella connotazione evocativa delle immagini ci sono il leone, la lonza e la lupa, basta cercarli che spuntano tra le righe a mordere e a graffiare con rinnovata avidità come pure si riscontrano in quelle “ oche cignoidi starnazzanti” che altro non sono che le opulente matrone di campaniana memoria, i cui striddii per altro sono annullati dalla pietas amorevole  che prende forma in un “quadrifoglio/che poi in realtà era un trifoglio”, raccolto e donato a colei che “era stata una di noi”, sempre costretta ad indossare “mise scafandriche” da chi per inveterata abitudine usava indossare soltanto mise “più austere”.

Ma davanti alle figure infernali Spurio non si lascia intimorire, non indietreggia, ricerca “una via unica”, la ricerca nelle piazze, nei “torok di polvere”, nel fiore giallo raccolto “al margine di un marciapiede”, nei “trucioli incastrati/ nella suola di gomma” e gli alberi abbattuti nel cuore verde di Istambul, nei barconi e nelle navi che affondano tanto nel canale di Sicilia come nell’Oceano Pacifico. E mentre rivive “una  vecchia ballata di Battisti”, ricerca verità nel desiderio di dare poesia agli uomini e alleviare le pene di molti proprio come dice Pavese in una bella pagina di diario, ben consapevole di sporcarsi “le punte delle scarpe” e darsi in pasto a quanti del verso poetico fanno mero strumento di notorietà e non matrice di sentimenti riflessi in impegno  e percezione profonda del reale. Pertanto lo straniamento che l’autore ricerca non è mai dettato dall’angoscia, bensì dalla presa di coscienza fino a giungere alla protesta e allo sdegno. La prosa poetica di Spurio può definirsi quale scrittura antropologica, un saggio in versi, un trattato di etica e di ecologia civile, disseminata qua e là da eccezioni lessicali in forma diversa dall’italiano come agemine ad impreziosire il tessuto lessicale di ciascun componimento. Versi mai banali, in cui talvolta il lemma si fa ardito, affilato, pungente, quasi dissacrante, ma mai irriverente nella ricerca della verità che rende liberi, consapevoli, smuove coscienze, distrugge armonie e ne crea altre e recupera il senso dello stupore, della bellezza, del pudore, del dialogo e del confronto con la vita, costringendo Atropo ad appoggiarsi “ad un fuso impolverato”, stanca e sfinita per il suo incessante e continuo recidere fili. Versi mai usuali che inchiodano l’individuo alle proprie responsabilità, forse invisi a chi ha l’orecchio delicato,  sotto una “pioggia acuminata” di sentimenti veraci che rigenerano dentro un paesaggio di identità in uno scenario metaforico in cui la tassonomia delle metafore rivela tipi di immagine, analogie, comparazioni, al fine di  creare  un contatto con la sensualità emotiva del lettore.  In questo inferno che è solo dei viventi, “città invisibili” si assimilano con i paesaggi interiori di ciascuno di noi, proiettati verso l’esterno mentre l’autore con gran maestria di rabdomante scopre acqua chiara anche dove il pantano si fa denso di fango.

Le poesie di Spurio “grattano dentro” a tal punto da grattare via tutta la crosta fino a far sanguinare l’anima, in maniera intensa, profonda, sensibile e puntuale, attraggono e proiettano verso dimensioni paraboliche di intensa umanità.

Alla maniera di M. V. Llosa mi sento di dire che leggere, come scrivere, è protestare contro le ingiustizie della vita, quindi attuare “ Live, travel, adventure, bless, and dont’ be sorry”, seguendo quel sentiero “On the road” che si dipana anche attraverso  le pagine di “Neoplasie civili” e che già si profila come esperienza privilegiata di lettura nell’esperienza del reale.

Ad maiora

Lucia Bonanni


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