IN UN BENE IMPACCHETTATO MALE Vincenzo Calò Decomporre Ed. 2014 Recensione a cura di Dulcinea Annamaria Pecoraro La scrittura da sempre è il mezzo che esterna i sentimenti più intimi o una monade che trasporta messaggi rivoluzionari, racchiusi in pochi versi e dettagliati da una spiccata capacità di osservare quello che ci circonda, con occhi liberi da bende e mani pronte all’azione. Chi pensa che il poeta sia un sognatore rinchiuso nella sua malinconia o dannato guscio, prende un abbaglio. Sicuramente testimoniare, alzando la testa e vivendo nel tempo, con la consapevolezza di quanto la memoria sia la storia di vicende più o meno piacevoli, diventa il compito e la costruzione. Calò riesce a sfidare l’ipocrisia e la corruzione del tempo, ribadendo concetti, sensazioni, crisi, invocando il senso illuminato perso in reazioni chimiche o armate. Racconta la quotidiana miseria in cui l’umanità si sta vestendo e ammonisce, come un padre fa con il proprio figlio, attraverso l’uso della parola: “… le mie poesie attentano alle tue ossa/ mentre corri su strade che ricorderanno strati di superfluo sotto il Sole…”. Ribadisce quanta creatività sia a portata di mano e come nei “numeri”, cadiamo e censuriamo, generando dipendenze e odio. Il potere rende schiavi e bugiardi: “Falsi professionisti di un amaro sfogo eleggiamo/ per concentrarci sulla povertà disorganizzata/ sulla poesia rilassata, che accende il freddo/ palpeggiando seni strappati/ preannunciando i propositi per l’anno venturo…”. Sottofondi carichi di forza che scuote e tenta la reazione, oltre il dramma o la commedia, Calò affonda con la sua penna e con la dialettica fissa la realtà, fotografandola abilmente. Come in un viaggio, ci accompagna, senza negare nulla, senza bende o bavagli, senza privare anche il rischio dell’incontro con il dolore, la pazzia, lo stress, la solitudine, la morte o lo stesso amore. “Dimmi cos’è l’amore se non me ne assumo il privilegio/ chi è che ti chiama quando non c’è tempo per fermarsi.” Una scoperta delle coscienze, denudando anima e corpo, portando a naufragare e disperdere “sangue gratuito”. In continuo movimento i versi di Calò formano trame e si intrecciano per slegare pensieri, formando poi metafore, immagini che compongono passaggi, epoche, giornate. “La bellezza di una ruota che non gira”, questo è quanto da un’attenta analisi siamo prossimi a diventare. La libertà troppo strumentalizzata dall’indifferenza, può alzare muri e silenzi. Ecco lo scopo del Poeta: “Spiegheremo, via sms, agli ubriachi di cultura/ come si generano le torture sulla signorina Fortuna”. Allegorico e determinante, psicologico a tratti, nel disegnare una sorte, senza volere giudicare la ragione o il torto, ma nel trovare un senso capace di destare e svegliare dal disagio. “Ricuciamo bottoni trovati casualmente/ rievocanti fiabe che male mai fanno/ sul piacere di vestirsi a disagio/ in uno spazio riconducibile alla pancia/ a riposo pur non facendosi accarezzare/ vista l’insana capacità d’essere fonti attendibili di una guerra civile/ tra stupidi calcolatori di complimenti, ch’evitano la visita medica …”. Un fiume in piena alimentato dal desiderio di quella grazia eterna, lontana dalle mode e dal successo ossessivo e dalla sincera linea guida di “non farla pagare d’istinto/ agli acrobati della Speranza/ dell’espressività assonnata/ della Notte.” Disarmante il tono, proteso solo nell’intento di denunciare, ricaricare, spiegare, crescendo esponenzialmente in un bene impacchettato male. Liriche che snocciolano contenuti profondi, calzanti, satirici, ubriacanti, mai doverosi o banali. Un salto geniale di contenuto, che sradica i canoni imposti, senza rime o i “bon ton letterari”, ma ricchi di quell’essenza che “schiaffeggia” (in senso buono), riattivando sorrisi, volontà, sopravvivenza, ricerca. “La generosità assume i petali del fiore che/ la realtà, fintamente misera e disperata/ fa crescere mentre viene tradita e abbandonata/ dal principe incolore, che s’avventura/ popolando irrinunciabili valori.” Fuori dal sonno, accettare ciò che ruota attorno non è cosa semplice, ma tra sabbia, tempo, regole, contenuti, valorizzare un piacere non così prevedibile, è quello che si avrà, scartando il dono che Calò ci offre, seppure impacchettato male. Dulcinea Annamaria Pecoraro
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CARLO ZANNETTI
il 19 giugno presenterà a Bologna il suo libro IL PARADISO DI LEVON con la partecipazione del giornalista FERNANDO PELLERANO Venerdì 19 giugno, il musicista e cantante bolognese CARLO ZANNETTI presenterà, presso la Libreria Ubik Irnerio di Bologna (via Irnerio 27 – inizio presentazione ore 18.00), il suo primo libro "Il paradiso di Levon" (Edizioni Anordest), uscito nelle librerie il 15 maggio. A introdurre e moderare l’incontro sarà il giornalista del Corriere della Sera FERNANDO PELLERANO. «Un libro "poetico" uscito dal cuore, che ricorda le persone più importanti della vita di Levon, anche quelle più semplici. – afferma Zannetti – Un libro che può, in ogni sua pagina, offrire al lettore alcuni spunti di riflessione.» L’opera di Carlo Zannetti ripercorre le avventure dello stravagante protagonista Levon, in onore di Levon Helm, batterista dello storico gruppo rock canadese "The Band" e grande amante degli animali. “Quali sono le cose più importanti dell'esistenza per le quali vale la pena vivere?” è l’interrogativo a cui il musicista, ormai vecchio e malato, cerca di rispondere nel corso di un suo ricovero in ospedale, cercando di individuare gli aspetti negativi e positivi del suo vissuto. Ricordando la sua vita singolare, colma di esperienze e suggestioni, Levon arriva addirittura a fantasticare su quanto lo attende dopo la morte e a descrivere minuziosamente il paradiso così come lo immagina. Il non-orgoglio negli occhi di sua madre, il grande amore per i Beatles e Jim Morrison, l'assoluta riconoscenza nei confronti dei cani e di alcuni grandi amici sono le cose che più hanno segnato la sua esistenza, senza dimenticare l'amicizia come fonte di ideali, i suoni e le immagini della natura, le risate, le lacrime, l'importanza delle proprie radici e la potenza dell'amore. Bolognese d’origine e padovano d’adozione, CARLO ZANNETTI manifesta sin dalla giovane età una notevole abilità nel disegno ed un forte interesse per la musica e per gli strumenti musicali. A dodici anni, con l'affettuoso supporto dello zio Paolo, inizia a suonare la chitarra, a più di cinquanta ha all’attivo 1200 concerti. Musicista, compositore, cantante, autore, pittore e scrittore può essere senz'altro considerato un personaggio eclettico e un artista poliedrico di rilievo nel panorama culturale contemporaneo. Nel 1995 raggiunge una maturità artistica tale da permettergli di iniziare una carriera professionale nel mondo musicale. E' proprio in quel settore che in breve tempo ricopre ruoli di prestigio al fianco di numerosi musicisti famosi in ambito nazionale ed internazionale; in particolare collabora come strumentista o come direttore artistico con: Loredana Bertè, Enrico Ruggeri, Eugenio Finardi, Shel Shapiro, Andrea Mirò, Sonohra, Jalisse, Jimmy Fontana, Orchestra Ritmico Sinfonica Italiana, Raul Cremona. Dalla metà degli anni ‘90 partecipa quindi a numerosi concerti, trasmissioni televisive e rassegne culturali in Italia e all'estero, affrontando anche lunghe tournèe. Nel maggio del 2015 esce il suo primo libro "Il paradiso di Levon", che riscuote da subito un grande successo. www.carlozannetti.it www.facebook.com/CARLOZANNETTIOFFICIAL E di queste cose io stessa mi meravigliai, quando ancor bimbetta per volere del destino, passai dalle mie montagne innevate all’isola “arsa dal sol fecondo”. Fu allora che iniziai a respirare aria siciliana, che nacque la mia predilezione per le piante grasse, che imparai a sbucciare i frutti dei fichi d’India, che volli gustare ‘a manciata ‘i ricotta, la colazione di ricotta, che ascoltai quei “suoni greci arabi latini” e ancora adesso mi piace acquistare gli agrumi con le foglie e tenerli nel paniere di castagno come usano intrecciare in terra di Mugello. LEONARDO SCIASCIA Cronista di scomode realtà. Raccolta antologica a cura di Martino Ciano Stile Euterpe vol.1 PoetiKanten Edizioni, 2015 Recensione a cura di Lucia Bonanni “Mio nonno si chiamava Leonardo, come me; era un gran lombardo alla Vittorini dagli occhi azzurri. (Come io non sono) un settentrionale. Ho trovato suoi biglietti da visita: Leonardo Sciascia- Alfieri. Alfieri è un nome del nord, che aveva ereditato da sua madre insieme agli occhi azzurri , mentre Sciascia è un cognome propriamente arabo, che fino al 1860 sui registri anagrafici veniva scritto Xaxa, e che si leggeva Sciascia. In arabo, dice Michele Amari, vuol dire “velo del capo” e per indicare un’amicizia strettissima si parla di “due teste in una stessa sciascia”. Mio nonno era stato caruso, uno di quei ragazzini che nelle zolfare siciliane venivano adibiti al trasporto del materiale. Imparò a leggere e scrivere e fino a qualche anno fa molti lo ricordavano per le sue collere terribili, il suo rifiuto a scendere a patti con la mafia nonostante le minacce”. “Tu sei Leonardo? Tuo nonno era una persona onesta”. (in L. Sciascia, La Sicilia come metafora). La figura del nonno, quell’ onestà, “gran virtù soffocata di molti siciliani”, il rifiuto a scendere a patti con la criminalità organizzata sono punti fermi nel racconto “Nient’altro” in cui “eroe d’altri tempi” per gli uomini onesti è un uomo stanco e solo, un anziano con “radi capelli canuti, lisci” che si considera “un niente mischiato con nessuno”, ma che in realtà è un personaggio di spicco nella trama del racconto e persona degna di gran rispetto nella realtà vissuta. “Mio nonno dice che a vossia dovrebbero fare il monumento; io lo metterei al centro di questa piazza… ma perché mio nonno dice che vossia è stato un eroe di altri tempi?”. Una moltitudine di ricordi agitò la mente di zi Ni mentre un’immagine si mescolava ad altre immagini in un crescendo di pathos emozionale. La promessa fatta al ragazzo si fece idea avvolgente dei suoi pensieri. “Cosa gli racconto?”, pensò l’anziano, “ a me sembra di essere nato ieri o di non essere nato affatto” E forse era vero! La sue vicissitudini di uomo e di libero cittadino potevano essere raccontate con poche parole. Quello della sua vita era un racconto breve. Una narrazione con pochi personaggi e fatti scarnificati come parole messe ad essiccare nelle saline dei pensieri nel “paese del sale/che frana/dall’altipiano a una valle di crete”(L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). Alla luce degli accadimenti non c’era “Nient’altro” da raccontare, se non che dopo mezzo secolo di detenzione era tornato in libertà , una libertà duramente conquistata e che onorava suo nonno, ucciso per non aver voluto cedere a nessun tipo di ricatto. “Nell’inventar storie vere” è qualità innata di Sciascia ed egli ricerca, insegna, investiga, partecipa attivamente alla vita culturale e sociale italiana e soprattutto scrive libri di denuncia , mostrando il “baratro della storia”. “A ciascuno il suo”, titolo in cui è palese quella figura retorica, detta ellissi, nell’avere di ciascuno “traspare un dolore sommerso”. “I bambini poveri si raccolgono silenziosi/sui gradini della scuola/addentano il pane nero/gli altri se ne stanno chiusi/ nel bozzolo caldo delle sciarpe” (L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). E se il sale “diventa morte,/ pianto di donne nere nelle strade,/fame negli occhi dei bambini?”(L. Sciascia, Due cartoline dal mio paese). Povertà, disuguaglianze di classe, abusi di potere, corruzione, marginalità, omicidi, rapine, attività lecite e illecite si consumano e si reiterano, come scriverà il giudice Giovanni Falcone come “Non frutto abnorme del solo sotto- sviluppo, ma prodotto delle distorsioni dello sviluppo”. E nel corso del tempo e nel ripetersi degli eventi “quella piovra/dal giorno della civetta/alla scomparsa di Majorana” continua, come scrive Bufalino, nella logica della “liturgia scenica (e) fra le sue mille maschere, possiede anche l’alleanza simbolica e fraternità rituale, nutrita di tenebra” e “uocchiu d’e gghenti”, l’occhio della gente, è anche l’occhio della civetta, animale dallo “sguardo scintillante”, dal grido acuto e stridulo ed anche simbolo di denaro. I glauks erano le monete ateniesi e la civetta di Minerva, dea della sapienza, è simbolo della conoscenza e della saggezza; gli occhi e il becco ricordano la lettera dell’alfabeto greco “fi”, ma è anche immagine controversa e contraddittoria perché, essendo un uccello notturno, richiama l’idea di morte, isolamento, solitudine, oscurità, come di miseria, di malefici, disgrazie e cattivi presagi. “Ridono gli altri uccelli tra le fronde/per la strana presenza del rapace/notturno in pieno giorno”, ossimorica presenza, antitesi tra buio e luce, contrasto tra suono e silenzio in una perifrasi narrativa che rimanda all’omicidio del sindacalista ad opera della mafia. Ma nel “giorno che irrompe ciarliero” gli uomini vanno verso i campi, obliando tutte le facoltà dei sensi e “con scarse propensioni di dignità” si chiudono nel più aspro silenzio. Intanto “i morti vanno, dentro il nero carro/incrostato di funebre oro, col passo lento dei cavalli” (L. Sciascia, I morti) mentre le donne al loro passaggio chiudono le imposte e i negozianti lasciano appena aperto uno spiraglio per poter spiare il dolore dei parenti. “Le cose dei morti, i pupi, la frutta di pasta di mandorle che i bambini la mattina del due novembre cercano e trovano in qualche angolo della casa . I morti che portavano i doni; i vivi che tra loro, a catena si ammazzavano” (L. Sciascia, Novembre a Palermo). Qua e là nei versi degli autori presenti in antologia, echeggiano i versi di Quasimodo “ride la gazza, nera sugli aranci”, “tra muschi grami, a supplizio/splende la pietra livida”, “dove mi hai posto/amaro pane a rompere”, come echeggiano quelli di Sciascia, “il silenzio è vorace sulle cose./S’incrina, se flauto di canna/ tenta vena di suono, e una fonda paura dirama” ma echeggiano anche quelli di Pavese “sei la terra e la morte./La tua stagione è il buio/ e il silenzio”. Il silenzio… parlare a cenni è arte che i siciliani inventarono a seguito della proibizione fatta da Jerone che, temendo qualche congiura, vietò ai siracusani di parlare fra loro. “Il parlar co’ cenni, con un moto del capo, della bocca, delle spalle, e soprattutto delle mani, è arte propria dei Siciliani che senza profferir parole, anche a notabil distanza, con un sol cenno spiegano i concetti della mente” scrive A. Mongitore in “Parlare a cenni”, “Il signor padre tutto fici per farti parlari portandoti cu iddu perfino alla Vicaria che ti giovava lo scantu ma non parlasti perché sei una testa di balata, non hai volontà…” dice D. Maraini in “Il silenzio di Marianna”. E di queste cose io stessa mi meravigliai, quando ancor bimbetta per volere del destino, passai dalle mie montagne innevate all’isola “arsa dal sol fecondo”. Fu allora che iniziai a respirare aria siciliana, che nacque la mia predilezione per le piante grasse, che imparai a sbucciare i frutti dei fichi d’India, che volli gustare ‘a manciata ‘i ricotta, la colazione di ricotta, che ascoltai quei “suoni greci arabi latini” e ancora adesso mi piace acquistare gli agrumi con le foglie e tenerli nel paniere di castagno come usano intrecciare in terra di Mugello. “Ci vuol coraggio a sbucciarli (i fichi d’India), rischiando di ferirsi con le spine”. Ricordo che gli uomini passavano intabarrati nei loro mantelli neri, con la coppola tirata sugli occhi, salutavano con un cenno del capo e i loro cavalli lasciavano impronte sulle trazzere assetate e nei vigneti. Spesso sentivo raccontare di brigantaggio e morti ammazzati e soltanto negli anni della mia autoformazione imparai il significato del termine “separatismo” e seppi della “rivolta del pane”, della tragedia dei carusi, “giovani fiori gialli tra pietre vendute ai padroni”, e dei fatti di Portella della Ginestra. Anni dopo i media mi mostrarono immagini crude e mi sentii derubata dall’usura del tempo lineare e dallo scempio del tempo ciclico. Sentivo la libertà quale elemento fondante di ciascun uomo; per questo anch’io volli contare i miei 100 passi e scrivere versi di pace mentre in via Nortarbartolo lasciai un biglietto insieme ad altri biglietti su quell’albero, emblema di legalità e voglia di cambiamento. Ma di cosa è fatta quella “sicilitudine” ,di cui parla Sciascia, in una realtà storica dove popoli diversi, non dissimili dai rapaci che volano “Sotto le rocce di Tindari”, si spartirono le bellezze dell’isola e la paura “storica” divenne paura “esistenziale”! Certo la posizione geografica dell’isola al centro del Mediterraneo è un punto strategico che la rende aperta ad ogni azione di conquista e come scrive ancora Sciascia “lo sbarco degli eserciti anglo-americani nell’isola, il 10 luglio del 1943, avveniva in condizioni quasi identiche a quelle dello sbarco degli arabi il 6 giugno dell’827 con l’isola come sempre sguarnita di difese, lo spirito pubblico prostrato da un’amministrazione rapace e corrotta”. E, se è vero che “a furca è fatta p’o poviru”, la forca è fatta per il povero, è anche vero che l’isola è chiusa nel guscio di se stessa e si lascia travolgere da idee che non affermano nessuna verità ed è sempre più assetata di certezze, sempre più affascinata dalle contraddizioni e dalla sofferenza come dalla simulazione e dalla maschera. Le fonti della sua passione intellettuale sono da ricercarsi in Demetra, Core e Aretusa , in Ciullo d’Alcamo e Giacomo da Lentini, nella pietra lavica del maestoso Etna, nei mosaici di Monreale e nel mito della roba come nelle “grotte aride (dove a volte) vengono rinvenuti corpi privi di anima”. “Già. Le due donne hanno reagito. Non sanno che da queste parti non si scherza…” perché in questa terra “più si fa finta di non sapere e meno si rischia la pelle” come è successo al notaio Manni, alla maestra Livato e a Michele che è tornato a casa , interrato in un vaso di fiori. “Ma lo sguardo di Sciascia andava oltre” così tanto oltre da scrivere che “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma”. In quelle “Isole nell’isola” esiste una radice di tristezza e quel senso tragico della vita che talvolta sfocia nel sentimento di solitudine che fa sentire stranieri in patria. “Diciam dunque che l’isola di Sicilia è la perla del secolo per abbondanza e bellezze… e vengono da tutte le parti i viaggiatori e ad una voce la esaltano” (Edrisi, Della Sicilia) e en esaltano ance la fiera bellezza delle donne, ne lodano il ruolo in seno alla famiglia, ne ammirano la posizione centrale nelle responsabilità sociali, donne che osano parlare con voce rude e misurarsi con gli uomini nel dramma popolare delle faide tra famiglie, del delitto passionale e gli amori impossibili, amori incarnati nel verismo di Alfio e Mena, di Gesualdo e Diodata. Tuttavia c’è anche da dire, come ebbe a scrivere Gramsci, che “la Sicilia conserva una sua indipendenza spirituale e questa si rivela più spontanea e forte nel suo teatro (che) è vita, è realtà, è linguaggio che coglie tutti gli aspetti dell’attività sociale, che mette in rilievo un carattere di vitalità. Della “questione” meridionale si continua ad avere l’impressione di una carte-souvenir e a prenderne nota a margine della pagina della partecipazione sociale. “Sto a far camorra sulle cose, seduto/ al sole d’aprile che in me torna/a un suo azzardo di sentimenti e di inganni/Il paese, non lontano, sembra affondare/ nel verde: di là di questo gioco/pieno di voci, è solo un paese di silenzio” (L. Sciascia, Aprile). Scrive Lorenzo Spurio a riguardo delle “Favole della dittatura”: “Simile attestazione alle “favole” sciasciane secondo me vale di più di ciascun saggio, libro, studio, o guida di lettura sul testo in questione in quanto Pasolini con strepitosa chiaroveggenza e una disarmante predisposizione ermeneutica ne affresca il contenuto con onestà, connotandone anche la forma… Pasolini gioca con le parole “favole” e “dittatura” chiamando il lettore alla riflessione”, “Ecco allora che la scrittura rafforza l’amore per la democrazia, se pur ammalata da sistemi corrotti e devianti e non di ordine piramidale bensì di natura reticolare (in) un carnevale di maschere che dividono quell’esserci ontologico tra il subire e il fare, tra protagonismo e antagonismo”, conclude Iuri Lombardi nel suo saggio antologico mentre per Martino Ciano, Curatore del volume, “c’è chi costruisce progetti che magari non finiranno sui tavoli dei baroni ma che danno testimonianza ai posteri che c’è altro.” “Leonardo Sciascia. Cronista di scomode realtà”, sono convinta che si è sempre cronisti di scomode realtà allorchè si coltivano idee di libertà, giustizia e uguaglianza e il potere della scrittura si fa denuncia; quando si dà ampio respiro a idee di vera fraternità, non si seguono mode e si diventa voci fuori dal coro; quando si ha paura e non si cede a vessazioni e ricatti; quando si è in stretto contatto con la nostra solitudine di Uomini reclusi nel gorgo dell’indifferenza; quando i nostri ideali sono macigni sul cuore per chi cuore non ha e le speranze fino allora coltivate, sembrano svanire; quando si è lasciati soli nel presente; quando si è ben consapevoli che per la fede di onestà anche altri prima di noi sono stati lasciati soli e altri dopo di noi lo saranno ancora perché “la verità è (sempre) ai margini dove pochi la cercano”. Lucia Bonanni Dopo il successo del primo volume sul progressive, l'autore torna con un e-book e una rinnovata indagine sugli artisti 'prog-rock di frontiera': dai Solaris al Perigeo, dai Kansas agli Arti & Mestieri Rock Progressivo 2. Linee di confine: il nuovo libro di Stefano Orlando Puracchio 80 pagine Un ritorno sul luogo del delitto. Così Stefano Orlando Puracchio definisce il suo secondo libro Rock Progressivo 2. Linee di confine: un lavoro che già dal titolo si avvicina a territori meno canonici e inquadrabili del prog-rock, con l'obiettivo di esplorare, dopo i classici del primo volume, nomi, ambienti e sottogeneri meno familiari. Il primo libro Rock Progressivo: Una guida aveva illustrato la genesi e gli sviluppi del fenomeno prog-rock, individuando moduli compositivi, connessioni con aree estranee al rock e direzioni stilistiche: Linee di confine si sofferma su protagonisti dell'era classica e del new prog (dai Kansas ai Marillion, dagli Arti & Mestieri agli Unreal City) ma anche su nomi meno "ingombranti" come Secret Oyster, Solaris e Agorà, avvicinandosi così a un'idea di progressive come approccio e attitudine, più che genere. Pubblicato nell'estate del 2014, Rock Progressivo: Una guida è stato il libro d'esordio di Stefano Orlando Puracchio. Classe 1980, giornalista professionista e grande amante del prog-rock, Puracchio vive tra Roma e l'Ungheria, dove si occupa di scrittura come freelance. Il suo primo libro ha riscosso notevole attenzione da parte degli addetti ai lavori e anche il sequel Rock Progressivo 2. Linee di confine susciterà interesse, a partire dai numerosi musicisti intervistati: Ádám Török (Mini), Attila Kollàr (Solaris), Enrico Olivieri (Metamorfosi), Renato Pezzano, Emanuele Tarasconi & Francesca Zanetta (Unreal City), Toni Fidanza (Orchestra Contemporanea), Giovanni Tommaso, Franco D'Andrea e Bruno Biriaco (Perigeo), Beppe Crovella (Arti & Mestieri), Massimo Manzi, Gabriele Possenti e Renato Gasparini (Agorà), Karsten Vogel (Secret Oyster), Steve Rothery (Marillion), Alessandro Papotto (Banco del Mutuo Soccorso, Periferia del Mondo), Rich Williams (Kansas), tutti disponibili ma raccontare le proprie esperienze e il proprio rapporto con il mondo del progressive. Dichiara l'autore: "Ho pensato di cercare tutte quelle situazioni e tutti quei protagonisti in qualche modo “borderline”, fuori dagli schemi e dagli stilemi progressivi. Se nel primo libro ho voluto “costruire” una definizione di Prog, nel secondo ho voluto “distruggere” una certa definizione affibbiata ad alcuni artisti, seguendo in un certo senso le filosofie orientali o, più semplicemente, il concetto della cintura del Karate. La cintura del maestro è nera perchè si è sporcata dopo anni di duro allenamento ma dopo un po', sfilacciandosi, torna bianca: il maestro deve, a quel punto, tornare allievo e riprendere a studiare". Trattandosi di prog di confine, Puracchio ha evitato un linguaggio difficile, ponendo l'attenzione sulle testimonianze dei musicisti coinvolti: "Nella divulgazione si rischia di finire impantanati nella “sindrome dall'aeroplanino”, imboccando il bambino anche quando è già più che adolescente, per questo motivo torno a fare il mio mestiere, il giornalista. Ritengo che siano i protagonisti a dover parlare del proprio lavoro: noi giornalisti dobbiamo essere un tramite o, al limite, dobbiamo con le giuste domande stimolare una conversazione. Certo, non mancano le mie riflessioni, ma saranno come sempre più dei consigli d'ascolto rispetto a delle dichiarazioni immutabili scritte nella pietra". Il libro è disponibile in italiano e in inglese sulle principali piattaforme di vendita online (incluse Amazon e iTunes). Info: Rock Progressivo. Una Guida: www.progressiverock.info/# Synpress44 Ufficio stampa:www.synpress44.com |
Deliri progressivi
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