ITALIA DA VEDERE: CIVITA DI BAGNOREGIO (Il paese che muore) Mi piace definire l’Italia come “il Paese dei paesi”, infatti, da nord a sud, sono davvero tantissimi i piccoli borghi che offrono, o per scenari naturali o per antiche strutture, atmosfere incantate di cui deliziarsi e impronte ancora palpabili d’un tempo ormai perduto nella storia antica di questi luoghi. Una di queste meraviglie è Civita, frazione del comune di Bagnoregio, in provincia di Viterbo. Il paesello sorge, in modo quasi surreale, su di una collina di tufo, a 443 mt d’altezza, nella valle dei Calanchi. La definizioni di “paese che muore” è dovuta alle innumerevoli frane, causate dal terreno argilloso e le continue erosioni, che lo hanno portato a sgretolarsi e precipitare a fondo valle, poco per volta nel corso di secoli e millenni, e che lo legano ad un destino inesorabile: La piccola cittadina d’origine etrusca, nel quale restano poco più di una decina di anime, è destinata a scomparire. Civita è raggiungibile solo attraverso un ponte percorribile esclusivamente a piedi; alla fine di esso v’è un antica “porta d’ingresso”, detta di Santa Maria, che apre ad uno scenario dal sapore medioevale e rinascimentale e ti catapultano inevitabilmente in quel tempo ad immaginare, ad occhi aperti, scene di vita quotidiana, costumi, antichi pali, feste di borgo e mercati di piazza. La visita ai viottoli, la piazza e la chiesa, richiedono solo poche ore e vale davvero la pena percorrere il lungo ponte, per recarsi in questo luogo suggestivo, destinato a scomparire e divenire solo “reperto archeologico” della sottostante vallata. articolo e fotografie a cura di Rita Veloce
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"Non era nata sotto una cattiva stella e nulla faceva presagire il suo destino. Mirta era una bambina come tante e come tante sognava cavalieri, principi e reami. Nei suoi giochi lei era sempre regina o principessa. La sua stanza diveniva castello fatato con paggi, fate, magie e sortilegi. La favola finiva sempre con il bene vittorioso." di Rita Veloce Non era nata sotto una cattiva stella e nulla faceva presagire il suo destino. Mirta era una bambina come tante e come tante sognava cavalieri, principi e reami. Nei suoi giochi lei era sempre regina o principessa. La sua stanza diveniva castello fatato con paggi, fate, magie e sortilegi. La favola finiva sempre con il bene vittorioso. Passavano giorni, mesi e anni tra giochi e fantasie; cresceva nel corpo, ma la sua anima troppo sognatrice peccava molto d’ingenuità. Un giorno, assorta nell’ennesimo sogno ad occhi aperti, mentre era affacciata alla finestra a guardare ipnotica il tramonto, scorse in lontananza una sagoma scura sul rosso sfondo che camminava sfiorando la riva, verso le case del paese. Presto prese forma una figura giovanile estranea a quei luoghi; forse un marinaio giunto da misteriose terre o un principe naufragato da una nave colma di tesori. Nella mente della fanciulla si sbizzarrirono le ipotesi più bizzarre e le briglie della fantasia le sfuggirono completamente dalle mani. Mossa da una curiosità infrenabile, volle precipitarsi sulla spiaggia per vedere lo sconosciuto da vicino. Giunta sulla calda rena, questi vedendosi dinanzi la giovinetta con uno leggero abitino fiorato carezzato dal tenue venticello e il fresco e roseo viso, le rivolse repentino la parola. Mirta abbassò gli occhi, ma non poté evitare che le sue labbra si allungassero in un timido sorriso. L’uomo, vezzo seppur giovane, con la stessa “arte” del pifferaio magico, riuscì a portare la ragazza verso le baracche dei pescatori, cominciando a narrarle ipotetiche sue avventure e vicissitudini. Mirta senza rendersene conto, affascinata da quei racconti a da quel tono di voce carismatico, prese a seguirlo al pari d’un fedele cagnolino. Ma una volta giunti dietro quelle cascine e lontano da “occhi indiscreti”, in un ora in cui i pescatori avevano già preso il largo da molte ore, lì, tra il silenzio delle reti stese e vecchie barche da riparare, le mostrò un altro volto, un’altra “favola”, un’altra realtà. Neppure nelle più terribili fiabe di malvagi stregoni, sortilegi spietati e maledizioni ancestrali, Mirta avrebbe mai potuto concepire quegli scenari. Il giovane cambiò viso, tono di voce e le sue parole divennero letame riversatosi su di lei impietoso. Le rubò i sogni e l’innocenza dalle rosee guance, sporcando la candida veste di crudeltà. Le rubò le favole e i lieto fine. Quando l’uomo ebbe soddisfatto la sua cupidigia lasciò quel fragile fiore reciso, sulla rena, con i petali laceri; gli occhi persi nel vuoto oltre il mare, le labbra ancora serrate e ferite da quella mano avvolgente come una coltre di fumo nera, che soffoca grida e respiri. Era ormai giunta la sera; le voci dei pescatori che stavano rientrando con il loro carico di pesci, cominciavano ad udirsi sempre più vicine alla riva e la ragazza trovò la forza di rialzarsi, presa dal pudore di non farsi scoprire lì in terra e fuggì più in fretta che le riuscisse. Giunta disperata al cospetto di sua madre, le crollò sul grembo; mai si sarebbe aspettata di non trovare consolo e rifugio tra le sue braccia. Mirta era colpevole; colpevole d’esser stata così ingenua, così sprovveduta. Colpevole d’aver provocato lei stessa le sue disgrazie. Colpevole d’aver portato in casa il disonore e di aver condannato i fratelli alla vergogna. Nessuna consolazione, nessuna giustizia, nessuna pietà. La donna la recluse in un luogo lontano, freddo e anonimo che qualcuno chiamava ospedale, qualcuno casa di cura, qualcuno manicomio e qualcun altro inferno; chiusa per sempre in una spoglia stanza senza nome, senza chiave, senza dignità e senza diritto. Sarebbe per tutti morta, se non presto dimenticata. E dimenticata fu. Folle e disgraziata, ma di quella vergogna fu celata per sempre l’onta. Quelle mura videro la sua ribellione, la sua rabbia, il suo dolore ed infine la sua inesorabile resa. Mirta cominciò a disegnare, su quei muri, la sua corte, i suoi giullari, i suoi castelli fatati e divenne principessa per coloro che il pasto le allungavano. Questo fu il suo nuovo nome; perdendone, pian piano, persino la memoria di quello vero. Quello oramai apparteneva ad una fanciulla che un giorno morì su d’una spiaggia, con il vestito a brandelli e briciole di telline vuote sulla pelle. In quella stanza, alla fine, la “principessa” aveva trovato il suo rifugio dai mali del mondo. Ma se mai c’è una fine alle sventure, per Mirta si fece un eccezione. Un giorno tutto cambiò e di tutte le stanze della “reggia” si dovettero aprire le porte. Gli spauriti inquilini dovettero lasciare quelle mura, unica casa che oramai conoscevano. Quelli che ancora avevano una famiglia disposti ad accoglierli, furono ad essa consegnati, ma per Mirta nessuno giunse. Gli anni erano passati inarrestabili e per la nuova generazione, lei non esisteva; non era mai esistita. Per chi l’aveva conosciuta, dimenticò che fine avesse fatto: “forse morta, sicuramente morta”. La “principessa” si ritrovò così abbandonata nel nulla più grigio di desolate periferie con un nuovo dolore ed una nuova sconfitta. Sul capo aveva ormai argentei riflessi, indossava indicibili vesti sporche e logore e tra le mani una sacca sfilacciata e rattoppata con pochi miserabili averi raccattati qua e là tra i rifiuti. La vedi ancora vagare per i parchi con un tozzo di pane rappreso tra le mani contorte; la vedi dividerlo con i piccioni. La vedi in compagnia d’un cane randagio; randagio come lei e che ne divide il destino, donandole l’unico amore che conosce. Qualcuno, tra la gente che ogni giorno passa di qua, si chiede: “Chissà chi è o chi fosse mai stata, chissà da dove viene e dove mai andrà. Chissà qual è la sua storia, se la ricorda ora, in quali epoche la visse e se la rivive ancora”. Ma di tutto ciò Mirta ha perso memoria ed età; forse l’unico dono che il cielo le ha fatto. Se qualcuno si ferma a farle un sorriso, la “principessa” ricambia fugace e abbassa il viso, poi giunta la sera torna silenziosa nella sua reggia di cartone, su di una delle panchine tra i binari della stazione, e nei sogni del suo cuore ancora fanciullo, consola quel tempo che gli fu negato e che mai nessuno gli potrà mai ridare, certa che una “fata”, prima o poi, andrà ad incontrare. © Rita Veloce
Come ogni crepuscolo di freddo inverno, sedevo sulla mia calda e comoda poltrona con il mio libro tra le mani. Così, iniziavo a viaggiare con la mente assorta in quella lettura. Ad un certo punto, sollevai il capo da quelle pagine e con lo sguardo sfocato perso nella stanza, mi misi a riflettere su quell’argomento che tanto risalto offriva alla mia attenzione. La felicità… La felicità, proprio lei, fatta di attimi non continui…attimi non scesi dal cielo come manna a sfamar gli animi in attesa (pensiero di tanti). Piuttosto, essa si cela dentro quegli istanti che basterebbe semplicemente cogliere come frutti maturi pendenti da alberi ricurvi per la generosa pienezza delle fronde. Dovremmo smettere di aspettare invano l’evento eclatante e la maestosità e capire che l’immenso stesso è formato da miriadi di frazioni di spazio e tempo. Qualcuno potrebbe far distinzione tra felicità e gioia. Forse sto parlando di gioia. Tuttavia, se riuniamo l’insieme gioioso di tutti questi momenti deliziosi che riusciamo a gustare e ci domandiamo: “sei felice?” Sono sicura che la risposta ci sorprenderebbe. Come agire perché ciò sia possibile? Come riconoscere quegli attimi? Il mio pensiero risponde unisono con l’animo: “il cuore semplice nulla pretende gli sia dovuto e ringrazia di quel che ha”.A questo proposito, mi viene in mente una storia. Una di quelle realmente vissute, una di quelle che si ascoltano con giovane e immatura coscienza; una di quelle a cui oggi do il giusto valore. La protagonista degli istanti che richiamo ai ricordi è Anna: una bambina di 10 anni circa che, nei lontani anni cinquanta, scrutava la nostra Italia sofferente uscire dalla seconda guerra mondiale. Il suo paese era un piccolo borgo marinaro del sud in cui la gente s’arrangiava di pesca; talvolta sorridente per le reti pregne e talaltra piangente per il mare gramo. Agrumeti e uliveti erano anch’essi una risorsa e le donne, chine per la raccolta, scalciavano la fatica dei campi con vecchi canti popolari, simili più a nenie o cantilene che a vere canzoni. Molte case della cittadina non conoscevano l’acqua corrente che veniva, invece, raccolta alla fonte. Con le “broccate”, si riversava in lavabi di stagno smaltato da utilizzare per le pulizie personali; gli indumenti, invece, venivano lavati alla fonte stessa impiegando cenere e scopette. Una volta asciugati al sole, gli occhi erano accecati per il biancore. Le giovani recavano sul capo uno straccio arrotolato a ciambella su cui posavano le grosse bagnarole piene di panni e, con maestria senza farli cadere, percorrevano a piedi moltissima strada per raggiungere la preziosa acqua. I miei occhi par me le mostrino dinanzi, con le loro lunghe vesti, piegate a lavare le pesanti lenzuola al cospetto del ruscello. Il paese contava poche anime. Molti erano migrati al nord e all’estero come rondini in cerca di clima migliore; tuttavia, cercavano sempre di tornare a riabbracciare i cari almeno per l’evento più importante, quello più sentito dalla gente del luogo: la festa patronale. Questo perché tanta era la devozione per un quadro bizantino raffigurante una madonna di carnagione scura. Si narra che una nave veneziana, dopo averla trafugata a Costantinopoli, si arenò inspiegabilmente al largo del mare di questo borgo. L’icona si posò su una roccia del posto e la gente gridò al miracolo attribuendo un volere divino a quest’avvenimento. Le umili abitazioni ospitavano famiglie numerose raggruppate in un’unica stanza e riscaldate dal tepore del camino. Qui ci si riuniva accovacciati l’un l’altro a narrar di storie e leggende popolari. Più in là, a distanza dagli ardenti ciocchi, si posava il “cicero”, tipico vaso di terracotta atto alla lenta cottura dei legumi. La brace ardente era, inoltre, collocata nei “bracieri” dove le patate cuocevano tra le calde ceneri. L’arroventato carbone aveva anche altri usi: per stirare e, altresì, adagiate in piccole porzioni nei “caldaretti” (secchielli in alluminio), ossia riscaldamenti trasportabili che i bambini portavano a scuola insieme all’esiguo corredino di quaderni, libri e l’immancabile calamaio. L’insegnamento non era per tutti e, infatti, tanti non superavano le elementari. Non era insolito notare in una famiglia che solo uno dei figli poteva continuare gli studi ed era spesso preferito il maschio. Anna amava molto la scuola ed era bravissima, ma dovette inchinarsi a questa logica permettendo al fratello di avere un futuro migliore pur essendo meno capace. Le rinunce erano tante, ma non si lamentava mai. Era una calda mattina di luglio. Il sole splendeva alto e la ricorrenza patronale era imminente. Ovunque i preparativi fervevano e il paese si vestiva a festa. Anna era seduta sulle scale di casa sua, vicino il grande orologio alle porte della piazzetta del paese, con una bambola di pezza che lei stessa s’era cucita. Osservava divertita il via vai affaccendato. C’era il giovane Gaetano che raccontava, ad alcuni amici, di aver visto una splendida ragazza in spiaggia quella mattina, una bellezza in pudico costume e con un gran cappello di paglia sul capo. Riferiva di aver attirato l’attenzione di lei esibendosi con spettacolari tuffi dal vecchio molto. Il figlio del fornaio passava e ripassava sotto le finestre della figlia del fruttivendolo e, con quel naso sempre in su, più di una volta, rischiò di cadere inciampando. I brontolii di Don Ciccio si udivano per tutta la strada, mentre tirava il piccolo Vincenzo per un orecchio: lo aveva scoperto a rubar limoni nel suo agrumeto. Il padre del discolo senza pensarci su due volte, si sfilò la cintola dai pantaloni e salvò l’onore percuotendolo sui calzoncini già logori. Anna era talmente assorta a fissare quella vitalità che si accorse di una presenza solo quando l’ingombrante ombra oscurò il sole. Voltò il capo, lo vide e con un salto di gioia esultò. Era lo zio Matteo, tipico emigrante che, dopo un lungo periodo d’assenza, tornava al paese natio per riabbracciare l’anziana madre proprio in occasione della festa patronale. Il suo vestire era inappuntabile ed era elegante al punto che ad Anna sembrava un principe. Lo zio, innanzitutto, si complimentò perché la bimbetta di un tempo era ormai una signorinella. Poi la prese per mano e la portò nel vicino botteghino dove gli comprò una banana. Sì, solo una banana. Ciò nonostante, Anna non ne aveva mai mangiate per il loro costo esagerato. La sua merenda era molto più semplice ma saporita: PANE E ARANCE. Gustò l’insolito frutto con lentezza e lo assaporò con flemma, in beffa alla “bramosa” richiesta del suo palato. Dopo qualche minuto, zio Matteo mise una mano in tasca e ne cavò un pugnetto di caramelle che teneramente riversò nelle mani della bimba. Anna ringraziò il generoso gesto e corse subito da sua madre salendo le scale due per volta. Giunta in cima, con sorriso sfavillante, le raccontò l’accaduto e le depose le caramelle sul grembo. La madre di Anna aveva da sempre lavorato china nei campi e lavato i panni alla fonte; quindi, era ben abituata alla fatica e ai sacrifici. La donna guardò la bambina e le chiese: “Anna, le dai tutte a me?” Anna sorrise e disse: ”Certo..io ne ho già mangiate e ..queste sono per te”. No, decisamente non sapeva dir bugie. Le si leggevano sul viso innocente e nei suoi limpidi occhi chiari. Tuttavia, donare quel “tesoro” a sua madre e vederla assaporare le caramelle era un attimo di felicità più immenso di quando le furono donate tra le piccole mani. Qualche anno più tardi, il paese si scontrò con il flagello della T.B.C. Tanti furono colpiti e tanti già sofferenti non sopravvissero. Anche Anna non fu risparmiata. Nonostante dovette scontrarsi con una realtà molto più dura del suo gracile essere, trovò sempre forza e ragione per ringraziare il cielo ed essere felice di ciò che di buono la vita le offriva, seppur poco fosse stato. SEPPUR AVESSE SEMPRE MANGIATO, COME UNICA DELIZIA, IL SEMPLICE PANE E ARANCE. © Rita Veloce L’odore della terra si mescolava con l’aspro odore della polvere da sparo, amalgamandosi all’acido dei sudori.
Quante fronti grondavano? Quante mani scivolavano inconsapevoli sul freddo metallo d’un arma? Il sapore dolciastro del sangue saliva alle narici e diveniva presto odore di putrido. I boati assordanti s’impadronivano dell’aria. Il sibilo dei proiettili era rete di traiettorie attorno, e attraverso, quei corpi rabbiosi, deliranti, implacabili che, da ogni dove, sbucava imbracciando un arma blaterante. Corpi forse già morti prima ancora che i loro cuori cessassero di battere. Carne da macello, animali sacrificabili; cibo di bocche bramose di quale gloria? Due uomini si trovano l’uno di fronte all’altro, guardandosi dritto in occhi iniettati di sgomento. Un improvvisa quiete scende pesante, come il tendone d’un palcoscenico. Inquietante, irreale. Strie di fumo di addensano statiche nell’aria e tra loro. Nulla più si muove, nulla più si ode nel vento; non un grido, non un lamento. Attorno ai due, ogni altro uomo è come un fotogramma congelato in quell’eterno istante: sospesi, immobili. Persino le pallottole sono ferme, e sospese a mezz’aria, sulla linea di tiro. Si guardano attorno e ancora negli occhi, poi il primo rompe quel silenzio surreale: «Perché mi hai ucciso, cosa ti ho fatto?» “Nulla, neppure ti conosco; ma se non lo facevo io, lo avresti fatto tu” replicò l’uomo che gli stava di fronte e che ancora impugnava un fucile fumante. « Hai ragione: anch’io miravo al tuo cuore» replicò il primo indicando la parte sinistra dell’uomo e guardando, subito dopo, il suo fucile esamine di colpi, disteso ai suoi piedi. “Ma dimmi: perché stavamo combattendo? Tu lo ricordi? Io l’ho scordato” gli chiese l’uomo toccandosi la fronte gelida di ricordi e di verità." « No. Neppure io ricordo le ragioni, so solo che qualcuno l’ha ordinato» fu la risposta. “Ma chi lo ha ordinato e perché? Non riesco a ricordare o, forse, non c’è nulla da ricordare. Solo non l’ho mai saputo. Tu ci capisci qualcosa? È tutto così assurdo, incomprensibile!” continuò l’uomo. «Non c’è nulla da capire, solo obbedire; questo mi hanno detto, questa è la risposta ai perché che spuntarono fuori come germogli per essere subito recisi e questo io ho fatto» rispose il primo, sicuro, oramai, solo di ciò che non conosceva. “Ed io ho obbedito e ho sparato; tu hai obbedito e sei morto: come loro ci hanno imposto, come hanno stabilito. Loro, burattinai dei nostri deboli fili. Ma loro, chi? Ora neppure questo ricordo, né m’importa ricordare. Forse non è importante ricordarli; forse non sono importanti, non lo sono mai stati… non quanto tutti noi!" "So solo che il gelo mi colpì alle spalle. Neppure lo vidi chi poi mi trafisse col suo piombo vile; nei miei occhi rimase impressa solo l’immagine del tuo ultimo rantolo. Poi… vidi solo la mia vita scorrere in un attimo; un susseguirsi d’immagini mute, veloci… tanto veloci che non ebbi né tempo per pentirmi, né per pregare, né per rincuorarmi delle gioie vissute e, dopo ancora, solo il buio. Ora mi ritrovo in piedi, qui dinanzi a te, specchio della mia dannazione! ” replicò il primo quasi strappandosi i capelli, alla ricerca, forse, di un dolore che gli donasse l’illusione che fosse solo un sogno, un brutto sogno e che in realtà fosse ancora vivo, magari tramortito, ferito, ma vivo. «Non ti odio e forse, in realtà, non ti ho mai odiato, eppure… ero convinto di volerti morto, che mi volessi morto, che mi odiassi e ti ho odiato!» disse il primo, guardando l’uomo negli occhi e ritrovando se stesso, e la sua pena, in essi. “Si… lo so… ora, però, è tardi… troppo tardi… non è più tempo di pace per noi!” fu la rassegnata risposta. «Ma loro possono ancora fermarsi… i nostri compagni… possono ancora fermarsi, per loro può essere ancora tempo di pace. Bisogna dirgli la verità. Dobbiamo gridare, farci sentire!» replicò, il primo, con il fervore di chi vuole assolutamente fare qualcosa. Urlare la verità, mostrarla chiara agli occhi di tutti, come chiara è ora ai suoi occhi. Ma con quale voce, quali grida? Non può. Nessuno dei due può più nulla. Gli altri dovranno vedere da soli la verità, lì dove stanno guardando: gli uni negli sguardi degli altri, senza bandiere, senza barriere. Ma… lo faranno? Intanto loro due lo stanno gridando: “GUARDATEVI NEGLI OCCHI E VEDETE, PRIMA CHE VI DIVORI LA MORTE SUL CAMPO D’UNA GUERRA QUALUNQUE” Rita Veloce La notte era particolarmente buia tra quelle strade; i passi della donna echeggiavano in un aria che odorava di nulla. Scarpe nere, con un tacco discretamente alto; il passo era lento, ma non incerto. La via imboccata costeggiava il fiume e presto sarebbe giunta sul “ponte dei disperati”. Sull’asfalto c’erano ancora tracce di un piovasco improvviso, sceso nel tardo pomeriggio. Su di una pozzanghera si rifletteva un debole scorcio di luna; un flebile bagliore che cercava di farsi largo tra le nubi dense che ingoiavano le stelle. A filo d’acqua c’era un bigliettino bianco, che pareva essersi appena posato. La donna fermò le punte delle scarpe proprio dinanzi ad esso, quasi le importasse qualcosa del destino di quel pezzo di carta ripudiato da chissà chi. Si chinò e lo raccolse delicatamente, come fosse una reliquia del fato, ma senza spiegarsene la ragione, visto che dentro di sé sentiva una lama gelida di apatia attraversarle l’animo da parte a parte. Le sue mani sembravano decidere da sé e tenevano ben stretto tra le dita quel misterioso pezzo di carta. Le unghia risaltavano su quel biancore; erano ben curate e mostravano uno smalto rosso scuro, ancora perfetto. Gli occhi, incuriositi, sfidarono la penombra e cominciarono a leggere le parole scritte: “Ti sei mai chiesto se esistono gli angeli? Io ogni notte guardo il cielo aspettandoli. Hai mai alzato gli occhi al cielo?”. «Sembra il pensiero di un allucinato, un alienato; cosa vorrà mai dire? Forse nulla e, comunque, non è riferito a me». Il pensiero della donna quasi si udiva in quel silenzio irreale, ma proprio mentre concepiva di restituire alla pozzanghera quel foglietto, ecco che qualcosa le sfiora i capelli; un secondo pezzo di carta le scivola sulla spalla, per poi ricaderle ai piedi, nello stesso punto della pozza d’acqua dove aveva raccolto l’altro. Non soffiava un alito di vento, quindi, pensò, è senz’altro qualche burlone che non ha nulla di meglio da fare che lanciare pezzi di carta da una di queste finestre. Alzò lo sguardo verso le vecchie palazzine di quella strada, ma non vi scorse nulla che le potesse suggerire da dove venissero con esattezza, né anima viva affacciata o che solo si scorgesse dietro i vetri. Tuttavia raccolse anche questo biglietto e lo lesse: “Ci sono luci anche nell’oscurità; sono fiaccole spente che null’altro ambiscono se non di poter essere accese per donarsi a te splendenti”. Ma che…? Fiaccole spente…non vedo fiaccole… Pensò la donna tra sé e sé. Lasciò scivolare dai palmi aperti e tornati vuoti, quei foglietti insignificanti e riprese, lento, il passo; ma non ebbe a farli più di tre o quattro che un lieve alito di vento le sfiorò un viso ormai secco di lacrime e un terzo coriandolo di carta gli svolazzò dinanzi come una farfalla sperduta. Aveva snobbato la pozzanghera e pareva deciso a danzargli proprio attorno, svolazzando irregolare. Nagaia (il nome della donna) lo afferrò al volo, sentendosene quasi sfidata. Questa volta lo stese in fretta, leggendolo con voracità, per quanto, da subito, le si mostrasse più lungo: “Ti sei mai chiesto se esistono gli angeli? Io ogni notte guardo il cielo aspettandoli. Hai mai alzato gli occhi al cielo? Ci sono cieli anche nelle pozzanghere. Hai mai visto la luce degli angeli? In ogni notte buia, io l’attendo. Hai mai aperto gli occhi alla luce? Ci sono luci anche nell’oscurità; sono fiaccole spente che null’altro ambiscono se non di poter essere accese per donarsi a te splendenti…” Ma è una poesia…erano pezzi di una poesia…ma di chi? Una poesia piovuta dal cielo… Pronunciò, questa volta sussurrando con un fil di voce, e rialzando lo sguardo verso tutto ciò che la circondava. I muri dei palazzi avevano un aria omertosa e tutte le finestre che scorgeva sembravano ben chiuse e mute, abbandonate a sonni profondi. Tutte, tranne… La scorgeva solo ora; era la finestra d’una mansarda…buia, ma aperta. Nagaia sofferma lo sguardo verso quell’apertura scura sperando di scorgere una mano sporgersi per lanciare un ennesimo pezzo di carta, una frase, una poesia; quelle strane poesie piovute dal cielo d’una notte senza luna, in una vita che oramai non sperava più di riscoprire interessi, emozioni. Nulla. Nessun movimento, neppure una piccola lucina rossa, sfavillio di sigaretta; ma la donna, ora, era decisa a svelare il mistero e non si sarebbe allontanata da quel posto senza prima capire. Cominciò così a guardarsi attorno, puntando lo sguardo sull’asfalto, in ogni angolo di quella strada, nel tentativo di scorgere altri foglietti, altre frasi che terminassero quella poesia o parole che potessero svelarle indizi utili a comprendere lo scopo o il mittente di quelle strane “missive”. “Eccone un altro…” sussurrò con un sussulto quasi gioioso e mentre si cingeva a raccoglierlo, un ennesimo fogliettino scese dolcemente dall’alto per planare poco distante da lei. Nagaia alzò subito lo sguardo verso quell’unica finestra aperta. Nessuna ombra umana si plasmò su quel misero davanzale; quei fogliettini sembravano davvero scesi dal nulla, o dal cielo scuro di quella notte misteriosa. «Ehilà...» pronunciò timidamente la donna, confidando ben poco in un cenno di risposta al suo richiamo. Infatti il silenzio continuò sovrano e la sua voce non ebbe neppure un eco di ritorno. Tutto taceva; quasi sembrava che nessun’anima abitasse quella grigia palazzina. Nagaia aprì il primo di quegli ultimi due pezzi di carta recuperati: “Se guardi oltre il tuo dolore potrai vedere la mia anima e la tua cercarsi, per illuminare insieme la notte. Perché vuoi camminare da sola verso il nulla? Non abitano lì gli angeli e non v’è luce nella resa”. Le dita affusolate della donna cominciarono a tremare; questa volta quelle parole sembravano scritte per lei. Temeva di tornare a credere in qualcosa, in qualcuno, di ricominciare a sperare. Era stato tutto troppo doloroso fino ad allora; emozionarsi di nuovo, riaprire le porte del suo cuore, lasciare la sua anima nuovamente libera di sognare, la terrorizzava. “No…” pensò tra sé e sé “è solo la mia debolezza che cerca scuse per desistere dalla decisione presa…devo riprendere il controllo di me”. L’altro foglietto rimaneva serrato nel suo pugno, tra la curiosità di leggere anche quelle parole e il timore del loro senso così incredibilmente calzante. Intanto le nubi lasciarono libera la luna che cominciò a splendere fiera come ogni notte serena, ma senza lasciare intravedere un cielo completamente terso e stellato. La luce della luna non può non toccare gli animi più sensibili e diviene più difficile ripudiare la vita. “Quante volte sono caduta e mi sono rialzata? Quante volte ho voluto dare ancora una possibilità a me stessa e al destino? E cosa ho ottenuto? Altro dolore, altre lacrime, altre rovinose cadute. Cosa mi prende ora? Perché il mio passo si è fermato in questa anonima strada, perché non restituisco alla fanghiglia di quella pozzanghera questi inutili pezzetti di carta e proseguo verso il ponte?” Nagaia interrogava la sua anima, ma la risposta era già nel suo cuore. “La vita è un dono meraviglioso, perché gettarlo via? Da qualche parte ci sarà di certo chi potrebbe avere bisogno di me; forse dovrei dimenticare i miei desideri, i miei sogni, le mie aspettative e dedicarmi a chi è solo come me, aiutare chi si è perduto, come me…forse mi ritroverei anch’io…forse dovrei darmi un ultima possibilità…forse…” E mentre la donna si tormentava nei dubbi, il palmo della mano si aprì e lo sguardo subito prese a frugare tra quei nuovi righi scritti: “Colui che insegue la morte non è mai stato vivo, poiché solo chi ha davvero vissuto sa di quali meraviglie si priverebbe arrendendosi ad essa; meraviglie che valgono mille volte di più dell’obolo che paghi”. Nagaia crolla sulle ginocchia, lì sull’asfalto ancora bagnato e copiose lacrime liberatorie s’uniscono all’acqua piovana, mentre un vento dolce, ma deciso, sfiorandole i capelli pare sussurrarle: “Presto spazzerò via tutte le nubi e rivedrai il sereno”. Non sa bene quanto tempo sia passato da quando ha raccolto quel primo foglietto, sa solo che sta oramai albeggiando. Nagaia si rialza, infila tutti quei pezzi di carta nella tasca del vestito, seppur un po’ bagnati e sporchi, passa le mani sulle ginocchia cercando di ripulirsi dall’umida polvere dell’asfalto, un ultimo sguardo a quella finestra e poi tutt’intorno al palazzo, per capire a quale entrata appartenesse quel piano. Non sapeva ancora bene cosa avrebbe fatto, ma sapeva con certezza che non sarebbe andata via senza fare qualcosa, anche solo un tentativo. Se era quella finestra la porta del cielo dalla quale le poesie volavano giù, un nome sul campanello del portone ci sarà stato di sicuro, anche se, non sapeva ancora a cosa le sarebbe servito. Sarebbe stato solo un nome; null’altro le avrebbe svelato e…cosa avrebbe dovuto fare dopo, suonare e chiedere candidamente : “mi scusi, è lei che lancia poesie dalla finestra?”; certamente no. Ma, allora, cosa? Ci avrebbe pensato dopo…ora voleva leggere quel nome e l’entrata probabile era una soltanto, così si avvicinò a quel vecchio portone scrostato di vernici, di legno ormai vecchio e malconcio. Niente, nessun campanello, nessun nome, neppure scritto con un pennarello in qualche angolo. Lo aveva esaminato tutto con estrema attenzione. Nulla. Tuttavia…il portone era semichiuso. Nagaia posò esitando, la mano su d’un anta e, delicatamente, cominciò a spingere per aprirlo almeno quanto bastasse per dare una sbirciatina al suo interno. Nell’atrio si scorgeva una lampadina penzoloni e rotta; per terra ancora i vetri. Tutto denunciava una situazione d’abbandono, di luogo disabitato; eppure qualcuno, lì sopra, nella mansarda, doveva esserci, pensò la donna. Intanto un raggio di sole entrò, dividendosi in più sfaccettature, da ogni finestra o fessura di muro fatiscente, illuminando la scalinata quasi come fosse un invito a salire. La donna non ebbe un solo attimo di esitazione e, concedendo uno sguardo attento alla gradinata avanti e a quella lasciata dietro di sé, con calma salì tutti e tre i piani, fino a ritrovarsi a quattro gradini verso la mansarda.. Si soffermò a riprendere fiato e fissò a lungo quell’uscio solo lievemente aperto; doveva salire quegli ultimi gradini e bussare, gli serviva solo riprendere fiato, ma lo avrebbe fatto. Intanto passarono, inconsapevoli, diversi minuti, durante i quali pensieri e congetture si contorsero in danze orientali nella sua mente, come sinuose ballerine. All’improvviso salì fulminea quel breve lasso di spazio che la divideva dall’avere finalmente tutte le risposte alle domande fattesi fino a quell’istante; perché indugiare oltre? La mano si posò sull’uscio a palmo aperto, poi si richiuse a pugno e bussò, dapprima delicatamente e dopo qualche istante di sconfortante silenzio, più energicamente. Nulla; nessuna risposta. Nagaia allora riaprì il palmo e lo spinse adagio, con discrezione, contro l’uscio. La porta si aprì duramente e cigolando, come se nessuno l’aprisse più da tanto, tanto tempo. Non entrò subito; si fermò ad osservare l’ambiente interno, da parte a parte, in ogni suo angolo visibile. Le finestre erano più di una; senza telaiatura e vetri, o con vetri rotti. Il tetto era fatto con travi e in molti punti si scorgevano grosse fessure; nulla di meno improbabile che qualche uccello migratore abbia lasciato lì il suo nido per poi tornarvi in tempi più miti. Non c’erano mobili, neppure accatastati in un angolo come si potrebbe far d’uso in una soffitta. Nulla, fatta eccezione per un tavolino, posizionato al centro, e una sedia, con una gamba rotta, che restava dritta poco più là. Sul tavolino non c’era nulla, tranne una vecchia penna. In terra, invece, c’erano tanti fogli, pagine di quaderni e pezzetti vari di carta ingiallita. Alcuni di loro danzavano tra soffitto e pavimento, sospinti dalla corrente d’aria che si creava da finestra a finestra. La donna varcò la soglia giusto in tempo per vedere uno di quei fogliettini volar fuori dalla finestra. Era quella la risposta alle sue domande? Solo uno scherzo del vento in una soffitta abbandonata? Tutto lì il grande mistero che così tanto l’aveva stuzzicata, fino a rivoluzionargli ogni altro intento? Una sensazione di sconfitta le fluì nelle vene e un senso di totale sconforto la piegò nuovamente sulle ginocchia. Di nuovo beffata dal destino; di nuovo illusa, tradita nei sogni, nelle speranze? Nagaia rimase immobile con lo sguardo verso il nulla e soltanto “nulla” sembrava tutto ciò in cui si era imbattuta quella notte. Nessun uomo, nessuna donna, nessun angelo…non c’era neppure un gatto randagio in quella mansarda. Le mani si misero a sfiorare quei foglietti riversati sul pavimento e nuovamente, come rispondendo ad una loro indipendente volontà, ne afferrano un mucchietto. Lo sguardo sembra essere più testardo delle volontà arresa di Nagaia, come pure ogni altra parte di sé, e comincia nuovamente a rovistare famelico tra quegli scritti. Altre poesie, altre frasi e forse racconti. Tra le tante, una colpì l’animo di Nagaia, seppur non la capisse a fondo; la sentiva dentro, specchio delle sue sofferenze: A volte mi guardo allo specchio e non vedo nulla, nessun riflesso che mi somigli, nessuna immagine se non quella di ciò che mi circonda. Eppure esisto e il mio cuore batte; il mio petto ancora si emoziona. Sulle mie gote ancora scivola una lacrima; non si ferma nei solchi scavati dal tempo. Non mi sono arresa al destino, non mi sono arresa al dolore e non mi sono arresa a me stessa. Sembrava che la gioia non fosse per me, non fosse con me; ma era dentro di me. Così, non perdendomi, non ho perso. Forse la mia immagine è ferma, riflessa in un giorno senza ritorno, ma io ancora ho camminato fiera, ho teso la mano a spine non mie e sanguinando ho curato ferite. Nulla accade per caso, nulla è senza senso, ma soprattutto nessuno è inutile zavorra d’un disegno perfetto e immenso. Se cerchi un angelo, comincia a guardarti dentro; se non l’avessi trovato nella mia anima, non l’avrei trovato mai, in nessun posto di questo mondo o di mille altri ancora. Nagaia sente in quelle parole il dolore immenso d’un intera esistenza, eppure un altrettanta immensa forza. Chiunque abbia scritto quella poesia è stato trafitto da un fato avverso e la lama di quel dolore deve essergli rimasta conficcata fin nel profondo dell’anima; non l’ha rimossa, non poteva, ma poteva continuare a respirare e far battere forte il suo cuore o arrendersi all’emorragia d’una resa. Lui o lei scelse di continuare a camminare a piedi scalzi sui vetri, ma sarebbe arrivato fin dove la vita gli avrebbe concesso. Non ha idea di quali eventi possano aver marchiato così a fuoco quell’esistenza, ne cosa ne abbia fatto del frutto della sua lotta, ma ora si sente piccola e piccoli i suoi tormenti. Forse non è stata inutile la sua avventura. Si rialza spolverandosi i vestiti, posa i foglietti sul tavolino, sfila dalle tasche anche quelli raccolti in strada e li aggiunge agli altri, affidandoli a quel vento che gli ha concesso quell’opportunità, affinché possa salvare altre anime. Forse non saprà mai di chi fossero e quale storia c’è dietro quegli scritti; forse rimarrà un mistero, ma non è più così importante porsi domande superflue, ora che conosce le risposte che più contano. Nagaia scende gli scalini e si rende conto con gradevole sorpresa che i suoi pensieri scorrono più fluidi e danzano come lucciole in un grande bosco in cui ora, però, il sentiero è illuminato. Arrivata al portone, ne esce che è già alto il sole e sullo scalino vede una vecchietta malandata sistemare poche grame cose, tutti i suoi averi, in un sacco di juta recuperato forse ai mercati, assieme agli avanzi di qualche frutto e qualche ortaggio; probabilmente il suo pranzo e forse anche la sua cena. “Buongiorno” Il saluto le viene spontaneo dal profondo, seppur non conoscesse la barbona, né avesse mai avuto premura di salutare sconosciuti. “Buongiorno a te bella figliola. Che ci facevi nel palazzo di nonna Adele? È disabitato oramai da più di tre anni; non ci abita più nessuno lì.” Rispose la vecchia sorridendole. “Nonna Adele?...La conoscevi, conosci la sua storia?...Parlami di lei…” chiese Nagaia presa dalla curiosità. “Certo che la conoscevo; qui tutti la conoscevano e conoscono la sua storia. Non sei della zona, vero?” rispose la vecchia. “No…ho camminato tutto il giorno ieri, assorta nei miei pensieri, e mi sono ritrovata dall’altra parte della città” rispose Nagaia. “Allora ti racconterò la storia di Adele. Lei viveva qui con il marito Eugenio e il suo figliolo, Davide; erano una famiglia benestante, tranquilla. Il marito amava andare a caccia, il figliolo invece amava gli animali e non gradiva la passione di suo padre. Era solo un ragazzino, dodici anni se non ricordo male; ogni volta sentivi il padre gridargli contro e dargli della “femminuccia” per il suo implorarlo di non andare, ad ogni battuta di caccia organizzata. Eh, figlia mia…alle volte il destino è crudele. Quel giorno…il giorno della disgrazia…il padre si mise in testa di “forgiare un uomo” e costrinse il figlio ad andare con lui. Era mattino presto quando svegliò dal sonno quella povera creatura…così presto che fuori era ancora buio. Se lo trascinò a forza nei boschi…la povera Adele si vide riportare un corpicino senza vita. Fu proprio il padre a colpirlo accidentalmente…ne rimase sconvolta l’intera città…non ricordi? No, forse tu eri troppo piccola, non puoi ricordare…o forse…si, non eri neppure ancora nata. Anche Eugenio ne rimase sconvolto; non fu più lo stesso uomo…beveva come una spugna, maltrattando quella povera donna che non solo non aveva nessuna colpa, ma conviveva a stento con quel dolore immenso. Pochi mesi dopo, lui, si puntò contro il fucile…quello stesso che uccise suo figlio e… si sparò. Si pensava che per la povera Adele fosse una salvezza quel gesto, ma lei non odiava il marito; sapeva che Eugenio, in fondo, adorava suo figlio. Lo amava tanto quanto lei e quella disgrazia gli lacerò l’anima forse più di quanto la lacerò a lei che lo aveva portato in grembo e donato la vita; lui gli aveva donato la morte, invece. Quando anche il marito morì, per quella poverina fu il colpo di grazia. Non voleva più vivere e la salvarono giusto in tempo, proprio un attimo prima che si gettasse dal ponte…quello lì…il “ponte dei disperati”, come lo chiama la gente del posto…” Disse la vecchia indicando proprio il punto che Nagaia voleva raggiungere la notte appena trascorsa. La donna fu attraversata da un brivido talmente forte per tutto il corpo, che quasi gli parve d’essere stata colpita da un fulmine; la pelle rabbrividì e il cuore parve salirgli in gola stringendole il respiro. “…per lungo tempo rimase chiusa in casa; non voleva mangiare, non voleva vedere nessuno. Si stava lasciando morire e…da questo era difficile salvarla” continuò la vecchia. “Poi un giorno una ragazzina bussò al suo portone e le chiese di darle qualcosa…quel che poteva. Le disse che il padre li aveva abbandonati e che sua madre era malata e non poteva lavorare per provvedere a lei e il fratellino; cercava di trovare un po’ di soldi per riuscire a mangiare un boccone di pane…povera piccola. Adele rimase molto colpita da quella sventurata…credo abbia trovato una ragione per lottare, per continuare a vivere…aiutò quella piccina e da quel giorno si dedicò sempre a tutte quelle povere creature bisognose di cure e di affetto: orfani, poverelli e andò persino negli ospedali a portare un sorriso, una favola e spesso anche una bella torta di mele…era divenuta una “boccata d’ossigeno” per quei poveri figlioli. Invecchiò senza mai risparmiarsi un solo giorno; diceva che in ognuna di quelle creature, lei, ritrovava lo sguardo del suo piccolo Davide e che questo gli dava la forza per andare avanti, nonostante tutto. Era diventata un angelo per tanti, tanti bambini; lei però diceva che l’angelo vero ce l’aveva nel cuore e tra le braccia ogni volta che abbracciava un bambino. Presero a chiamarla “nonna Adele”, prima i bambini dell’ospedale…e poi anche tutti gli altri. È morta tre anni fa…aveva novant’anni e fino al suo ultimo giorno si occupò degli altri. E questa è la sua storia figlia mia…ce ne fossero altre, tante altre, al mondo di “nonna Adele”, ma alle volte gli angeli sono tra di noi, solo che neppure loro sanno di esserci”. Nagaia aveva ascoltato tutta il racconto della vecchietta piangendo ed ora non aveva più dubbi. Una vita non si getta via, non si sciupa inutilmente. Non si vive solo per se stessi. Farne dono generoso agli altri è il modo giusto per renderla, a tutti gli effetti, il tesoro prezioso che è. Senza nulla pretendere che ti ritorni, alla fine ti avrà arricchita del valore che più conta. ©Rita Veloce “…e se vi ho emozionato, non limitatevi a cercare gli angeli, siatelo voi per primi.” «Vedi tesoro? In fondo non possiamo lamentarci...c’è chi sta peggio di noi e mangia soltanto pane e miseria, ricoprendosi sempre con gli stessi luridi stracci!». È un delizioso pomeriggio di fine maggio e, come tutti gli altri giorni, Adelina scende a giocare con l’amichetta che abita in una casa vicina: Flavia. Le bambine hanno uguale età, anche se non frequentano la stessa classe di scuola.
Flavia adora sfoggiare i suoi giochi; le piace mostrarli e vantarsi usandoli. Difficilmente, permette all’amica di toccarli, ma è l’unica bambina con la quale Adelina può giocare in quel quartiere dato che sua madre, Anna, non vuole che si allontani. Sono le cinque e la mamma di Flavia scende le scale per porgere a sua figlia un generoso panino imbottito. «Che schifo…non lo voglio così, lo sai che non mi piace. Fanne un altro!» replica la bambina contrariata. La madre sbruffa un po’; poi, porge il succulento panino verso Adelina: «Mangialo tu o finirà in spazzatura come le altre volte; Flavia sali in casa a vedere cosa preferisci ti metta all’interno». Rimasta sola, Adelina guarda quella manna cadutagli dal cielo; il palato le si riempie d’acquolina e, ancor più insistenti, si odono i brontolii del suo pancino vuoto. I genitori di Adelina vivono un brutto momento. Il padre è in ferie forzate per un piccolo incidente sul lavoro: lavora in nero come muratore ed è caduto da una piccola impalcatura, fratturandosi una gamba; ciò significa un fermo non retribuito di più d’un mese e le entrate già non sono granché. La mamma, invece, arrotonda con piccoli lavori di sartoria a conoscenti. Molti, tuttavia, tardano a pagarla o retribuiscono con prodotti di loro produzione; anche, in tal modo, per la donna accetta ben volentieri. Quel giorno, il pranzo non è granché come del resto tutti gli altri addietro. La tavola è bandita scarsamente e le provviste in dispensa sono quasi finite. Il frigo, tra l’altro, rinfresca il solo latte. Il panino le avrebbe fatto dimenticare tutto fino a sera, ma c’è altro che Adelina non può scordare. Poco distante da casa sua, in un quartiere più in entroterra, sporco e poco tranquillo, vive una sua amichetta: Giulia. La bambina, ultimamente, non si reca neppure a scuola; rimane fuori la porta di casa, una sorta di garage adattato, a giocare con la sorellina Lucia. Giorni prima, Adelina ha visto le due bambine passando di là con sua madre e ricorda che lei le disse: «Vedi tesoro? In fondo non possiamo lamentarci...c’è chi sta peggio di noi e mangia soltanto pane e miseria, ricoprendosi sempre con gli stessi luridi stracci!». Adelina ripensa a quelle parole e rivede le due magrissime ragazzine ogni volta che il pancino le brontola e si sazia di una pietanza poco gradita. Anche adesso, mentre stringe tra le mani quella delizia, gli sguardi di Giulia e Lucia le tornano in mente; perciò, le balena un pensiero. Sua madre non vuole che lei vada in quel quartiere, ma la bambina ha già preso la sua decisione; s’incammina convinta verso le meno fortunate amichette. Giunta davanti la loro abitazione, le vede indaffarate e sorridenti alle prese con uno strano gioco. Nulla di simile agli splendidi balocchi di Flavia o alle sue bambole agghindate, né paragonabile alla sua bici rosa o al suo monopattino rosso sgargiante; eppure, tra le loro mani e sparpagliati sugli scalini, nota una moltitudine di tappi colorati che sembrano piccoli gioielli. «Ciao Giulia, neanche oggi sei venuta a scuola…a cosa state giocando?» chiede Adelina. «È il nostro giardino…non vedi quanti fiori colorati? Vuoi giocare con noi?» risponde prontamente la bambina. «Certo…si può fare merenda in questo vostro meraviglioso giardino? Ho un buonissimo panino imbottito che vorrei dividere con voi dato che è troppo grande da mangiare da sola!» replica Adelina, mentendo. Gli occhi delle due bambine sgranano e iniziano a brillare più delle stelle del cielo nella notte di San Lorenzo; un tacito e recondito desiderio viene esaudito anche in quel contesto. Giulia e Lucia fanno spazio, tra “rose, margherite e tulipani”; le tre ragazzine dividono gioiose quel boccone. Adelina pensa che mai, come in quel momento, si è sentita tanto felice di giocare con un’amica. © di Rita Veloce 2012 (Racconto presente nel libro di fiabe LATTE DI LUNA) di Rita Veloce "Ciò che troppo facilmente temi e giudichi, potrebbe essere migliore del tuo stesso pensiero." Erik era un esile fanciullo che viveva in un antico villaggio, Lemuria, nella verde vallata ai piedi della grande montagna. Il posto era avvolto da veli di arcaiche leggende del nord e offriva carne a storie di magie e sortilegi, come le nubi che a volte celavano la cima del monte o la nebbia che nascondeva il letto del fiume. Quell’altura sembrava il posto più stregato dell’universo. Si narrava fosse popolato da elfi e mitologiche creature e nessun fanciullo si sarebbe mai avventurato da solo. La gente del luogo la chiamava “la montagna d’argento”. Erik, una volta, chiese a suo nonno il perché dell’argenteo aggettivo dato che, in apparenza, non v’erano ragioni. Il vecchio rispose che il motivo erano gli innumerevoli lupi dal manto grigio che abitavano la foresta del rilievo. Continuò raccontando che quegli animali erano demoni malvagi scacciati dal mondo degli uomini in epoche remote. La vita al villaggio scorreva tranquilla. Le greggi venivano portate al pascolo alle prime luci dell’alba e rinchiuse nei recinti al calar della sera. I contadini si recavano nei campi al mattino e tornavano sfiniti oltre il tramonto. Lungo il fiume si praticava la pesca e partivano imbarcazioni verso mercati lontani per lo scambio e acquisto di merci. Le donne animavano il mercato della piazza durante la giornata; mentre, vicino le case, i bambini giocavano con spade di legno emulando gloriose battaglie ed inventandone nuove. Era un periodo di pace e da molto tempo gli uomini non imbracciavano armi. Le uniche eccezioni erano l’utilizzo per la caccia dai pochi esperti dell’impervia altura e in alcuni periodi l’attenzione alle mura di cinta perché i lupi scendevano pericolosamente vicini nel tentativo di trovar animali incautamente custoditi. Erik era insofferente per quella tranquillità perché gli scorreva l’impeto dell’avventura nelle vene. Le leggende gli trasmettevano curiosità e non lo terrorizzavano affatto. Anzi, la grande montagna e le sue immaginarie creature lo affascinavano e attraevano ogni giorno di più. Una delle tanti notti piene di sogni e fantasticherie si convinse che, se i cacciatori potevano cavalcar il monte, avrebbe potuto farlo anche lui. Prima che il sole fece capolino nella vallata, si preparò la sacca, si vestì e, in silenzio per non svegliar nessuno, superò l’uscio di casa dirigendosi fuori dal villaggio. Era indeciso sulla direzione da seguire. Un fitto fogliame ricopriva ogni angolo dei sentieri tracciati e non gli restò che affidare la sua scelta al caso. Intraprese la strada in salita che fiancheggia le cascate e seguì il rio che alimenta il fiume. Mentre perdeva la vista del villaggio, il clima era sempre più freddo. La luce del giorno cominciava ad affievolirsi ed il tramonto era imminente. Così Erik, trovò riparo in una grotta. Poi, raccolse la legna utile per riscaldarlo durante la fredda notte e tenere lontano i lupi. Quando venne sera, il fiato gli usciva condensato dalle labbra sempre più asciutte. Decise allora di accendere il fuoco. Si sedette dinanzi quel benedetto calore e tirò fuori dalla sacca un pezzo di pane e un po’ di formaggio che furtivamente aveva sottratto dalla dispensa in cucina. Le allegre fiamme ipnotizzarono i suoi pensieri e portarono la fantasia a voli sfrenati di sogni ad occhi aperti. Proprio mentre si convinceva che il bosco non fosse realmente un pericolo, ebbe la sensazione di udire inquietanti versi e sentiva un brivido percuoterlo per gli strani movimenti dei cespugli. Girava lo sguardo in ogni direzione cercando di scorgere la fonte di tutto quel brusio, ma non notava alcuna sagoma che gli facesse intuire qualcosa. La foresta inghiottiva, persino, le ombre. Fu dura fatica tenere occhi aperti e vivo il fuoco. Infatti, a prima mattina si ritrovò addormentato accanto alle braci ancora fumanti. A quel punto, riprese convinto il cammino in salita. Ad un tratto, comparve la neve. Proseguendo, il paesaggio si imbiancava al punto che si domandava dove si stesse dirigendo, non avendo una meta precisa. L’unica sua certezza era sfatare o confermare quei miti. Questo proposito lo rafforzava. Il passo si fece pesante e il fiato sembrava si potesse tagliar con una lama. La sera colse il giovane di sorpresa e questa volta era sprovvisto di rifugio e di legna da ardere. Le voci della foresta si susseguivano per smorzare l’irreale quiete e sentì di essere seguito; non riusciva neanche a girarsi attorno per tener d’occhio la situazione. Il gelo lo stava paralizzando e i suoi movimenti erano lenti e faticosi fino a quando rimase senza forze. Mosse gli ultimi affaticati passi e crollò, rantolando, nella frolla neve. In quell’istante, tutta la sua breve vita gli scorse davanti. La sua casa gli apparve nei pensieri. Il caminetto acceso e la pentola che bolliva una calda e saporosa pietanza, il cui profumo si spandeva per le stanze; i fratellini che si preparavano per la notte e inginocchiati ai lettini recitavano le loro preghiere; la madre amorevole che li copriva con le calde coperte di lana e sulle rosee gote posava il suo bacio della buonanotte, dopo aver raccontato una delle famose leggende che lo avevano spinto in quel gelo. Ipotizzava che in quel calore non ci fosse più posto per lui e che non si fossero accorti della sua assenza. La nostalgia lo assaliva e tristemente meditava che loro non provavano la stessa cosa. Nessuna disperazione perché nessuno lo cercava. Quella era l’ultima dimora che avrebbe vissuto e si concludeva la sua prima e ultima avventura. Non aveva incrociato alcuna strana creatura, elfo dispettoso o demone orribile; aveva inseguito i suoi sogni e di questo non era pentito. L’insistente ululato dei lupi che si avvicinavano muovendosi tra i cespugli, i riflessi argentei del loro crine e quelle pupille rosse d’accesa ferocia che spiccavano nel buio gli raggelavano i pensieri. Lo avrebbero incontrato disteso a faccia in giù nella neve, privo di forze e inerme. Per loro, sarebbe stato semplice banchettare con le sue carni, così come dilaniano i capretti. Gli mancarono i sensi alla vista del branco. Percepiva il caldo fiato sul viso e l’odore nauseabondo di belva. Poi, solo buio profondo e il nulla. Nessun dolore, freddo o voce. Solo il battito ormai lento del suo tenero cuore che rimbombava nel silenzio della sua mente. Credeva fosse arrivata la fine e d’essere ormai giunto in paradiso quando svegliandosi, tra calde coltri, riconobbe il viso di sua madre che, affettuosamente, gli carezzava la fronte. La donna gli raccontò, con voce soave e candida, di come i cacciatori l’avessero trovato proprio seguendo i lamenti dei lupi che si erano accucciati attorno al suo corpo preservandolo dal freddo e dall’assideramento. Alla vista dei cacciatori, il branco fuggì via. L’ultimo a scappare fu il capobranco che si voltò per assicurarsi che il giovane fosse stato salvato. Uno dei cacciatori puntò l’arma verso il coraggioso lupo, ma gli altri lo fermarono affermando: Un’animale conosce la pietà, perché noi non dovremmo? Tornati al villaggio con il fuggitivo recuperato, si sentivano più ricchi per la lezione di vita imparata. La stessa che il giovane avrebbe portato, preziosamente, con sé per tutta la sua esistenza. Erik sarebbe diventato un uomo saggio, un uomo che non si sarebbe mai arreso continuando a seguire i propri sogni anche se in modo meno sprovveduto. Ai suoi figli, ed ai figli dei figli, avrebbe insegnato a guardar sempre con gli occhi del cuore perché ciò che troppo facilmente temi e giudichi, potrebbe essere migliore del tuo stesso pensiero. - Rita Veloce - Rita Veloce, nata a Rodi Garganico. Vincitrice del primo premio nel Concorso Internazionale di Poesia “Giuseppe Longhi” 2011 con la poesia EMIGRANTI CLANDESTINI – COMUNE DIVERSITA’, finalista nell’edizione 2012 del Concorso Nazionale di Poesia “Falcone e Borsellino: Vent’anni dopo” con la poesia L’EREDITA’, Silloge Finalista su 381 testi partecipanti nel Premio Letterario Ibiskos 2012, Menzione d’onore nell’edizione 2012 del Premio Letterario Internazionale “Trofeo Penna d’Autore” con la poesia LA LUNA E LA COMETA e finalista nell’edizione 2013 del Concorso Nazionale d’Arte e Cultura “Mario Dell’Arco”. Pubblicata sull’antologia “Giuseppe Longhi“ VIII edizione, sull’antologia “I Grandi Classici della Poesia Italiana“ 2012, sull’antologia “Per non dimenticare Falcone e Borsellino: Vent’anni dopo” 2012, inserita nell’antologia “Emozioni in bianco e nero” 2012 con un componimento poetico ed una fiaba e selezionata per l’antologia del Premio Internazionale di Poesia “Liber@rte” 2013. Ha, inoltre, già pubblicato un libro di fiabe (LATTE DI LUNA) e una silloge poetica (I COLORI DEL VENTO). Potete iscrivervi al suo gruppo facebook “FIORI DEL DESERTO” all’indirizzo: https://www.facebook.com/groups/219280771457501/ |
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