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"Ecco, un altro scherzo della magistratura!" - Cristiano Scardella

11/19/2015

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Perché è morto quell’uomo, il commerciante di liquori, per il quale è stato accusato innocentemente Aldo Scardella, poi morto in carcere dopo sei mesi in una cella d’isolamento? Perché dodici anni dopo uno dei responsabili confessò ed escluse ogni responsabilità su Aldo?

Non lo deve chiedere a me, Generale! Questa domanda la deve porre agli investigatori di allora, i quali hanno lasciato solo il commerciante proprio nel momento in cui ne aveva bisogno, nonostante l’amicizia e gli impegni sociali che li accomunavano da anni.

Di chi aveva così tanta paura il commerciante assassinato, tale da non potersi nemmeno confessare con i suoi amici poliziotti? Erano più potenti; ecco, perché non ne parlò. E seppure ne parlò perché non gli diedero ascolto?
Il magistrato non è coerente: quando ipotizza un’accusa insinua nell’indiziato il dubbio che abbia commesso lui un crimine. Quando, invece, si trova dall’altra parte, nelle vesti di imputato, se l’inquirente insinua anche in lui il dubbio di avere commesso un crimine, lui risponde: non rispondo alla sua domanda perché la reputo offensiva. La sua accusa la deve argomentare in modo logico e non fantasiosa. Sono convinti che il magistrato faccia il suo mestiere quando presuppone un’accusa, molte volte senza avere elementi su cui basarsi.
Allora il ladro presuppone di rubare quando ci sta solo tentando, poi se riesce nel suo intento va in galera perché non è autorizzato. Ci sono argomentazioni come quelle giuridiche che vengono accettate come fossero normali: si condivide un delirio. Quando il loro pensiero cattura, coglie per caso un uomo, quest' uomo è già rovinato. L’inquirente non è mai convinto della colpevolezza dell’indiziato, ma nel processo vuole convincere del contrario. La logica aberrante dell’inquirente è l’unica pazzia, e nonostante la assecondi si viene penalizzati.

Ci sono coperture che lo Stato garantisce e logiche di Stato che impediscono di rilevare le ragioni di certe incriminazioni, ecc. Queste cose esistono perché la gente, quando gliene fai cenno, come certi casi vicini a loro, cambia subito discorso. Tali persone sono stupide; Dio gli ha dato una coscienza, un'intelligenza e loro continuano ad essere stupide e pigre, perché vogliono vivere senza pensieri... comodi nella loro ipocrisia.

Come si sono occupati nel nascondere le prove dell'innocenza di Aldo, allo stesso modo si sono sforzati di sapere tutto ciò che lo riguardava. Non si potrebbe nemmeno ipotizzare che sia rimasto vittima di inerzia e superficialità, poiché c’era una volontà nell’occultare e nell’accusare impropriamente ... senza contare che si sono accaniti contro una persona pur sapendola innocente. La verità sta tuttora negli armadi dello Stato e temo che rimarrà lì per molto tempo ancora. Le parti processuali tendono ad allontanare la verità.

Quando mio fratello Franco morì in un incidente, in mare nel1992, ricordo che era una splendida giornata di sole. Venni poi a sapere che il magistrato della super procura, per le indagini di turno, era Enrico Altieri, lo stesso che si occupò di Aldo, varie volte e per diverse circostanze, compresa la sua morte. Fu colui che non si accorse del referto autoptico, in cui i medici fecero figurare dosaggi e quantità di una terapia metadone inesistente, quindi, della discrasia dei medici riguardo il metadone. Non so cosa ipotizzarono quando aprirono il fascicolo di Franco, ma credo che non ebbero molta "fantasia"! Essi la fantasia la riservano solo quando illustrano la loro panoramica accusatoria.

Non capisco né lui né gli altri colleghi e tutti gli addetti ai lavori: è una vecchia storia di quasi 30 anni! Trovo tutto questo deontologicamente scorretto! Poi sarei io il fissato! E ditelo anche voi una volta tanto che sono loro stessi degli invasati, dei bipolari in fase maniacale!
Per la morte di Franco, quando seppi che era Altieri il p.m. di turno, ricordo di aver detto a qualcuno in maniera allusiva:
"Ecco, un altro scherzo della magistratura!". La persona candidamente mi rispose che non aveva capito. “Mi auguro” - dissi a me stesso tra il serio e il faceto – “che quando passerò a miglior vita non sia lui o altri della sua famiglia a occuparsi della mia morte”.

Per questo magistrato questa discrasia, sulla vicenda del metadone, continua a non esistere, pur avendola disposta lui stesso l’autopsia. Anni dopo la morte di Aldo, fu questo stesso magistrato, durante un’inchiesta, a sostenere che il ragazzo non si suicidò, ma fu vittima di una sua simulazione per uscire dall’isolamento.
Sembrerebbe che la sua morte abbia avuto a che fare con una certa modalità mafiosa. Metadone nel sangue e nel referto autoptico del prof. Cortis fanno figurare una terapia metadonica inesistente. In altri termini, lui stesso fece figurare quantità e dosaggi di una terapia metadonica inesistente (nella cartella clinica risulta che non era in terapia come anni dopo confermarono le carceri). Lo stesso metodo mafioso fu adottato quando indagarono sul finto suicidio.

Vuol dire che non c’è bisogno di scomodare la mafia per compiere delitti scomodi con quel tipo di tecnica. Dopo aver posto il dubbio sulla morte di Aldo, le "entità sconosciute" hanno ucciso ancora, e potranno uccidere di nuovo, soprattutto cercando di annientare me, visto che sono stato io a inculcare questo dubbio.
Una verità giudiziaria, nascosta dagli stessi inquirenti, può diventare oggetto di persecuzione di chi la cerca. In ogni caso, è necessario pensare, riflettere sempre per renderti conto di quello che hai lasciato dietro e di quello che è sempre presente. La verità rende liberi, soprattutto, chi è perseguitato, perché in qualche modo gli salva la vita. Tutto ciò, mi disse qualcuno, mi sembra così irreale, così assurdo: poteri occulti che si insinuano nello Stato, stravolgendo le regole della democrazia! E riscontrando in tutti interpreti della giustizia una malafede generale!


“Permettimi di dissentire, io credo che tu, comprensibilmente, con tutte le avversità subite, non sia sereno”.
Certo è così difficile da capire; non si possono descrivere i meccanismi e gli effetti di un sistema malato.
Quando vogliono mantenere intatta la loro presunta “onestà”, agiscono brutalmente usando tutti i mezzi in loro possesso e nessuno se ne accorge, o meglio fanno finta di non vedere. Ma basta dare una lettura attenta alle carte processuali (senza aver bisogno di farlo in senso critico), ed emergeranno le tracce del loro passaggio.

Comunque, aspetti un po’ prima di denunciare quest’altra morte per poter avere un minimo di vantaggio su di loro..


Cristiano Scardella
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"Un angolo di paradiso" di Rita Veloce

11/1/2015

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​Il piede sinistro si porta avanti.
  • Che intenso profumo di fiori! –
Il piede destro si porta avanti e un altro passo è compiuto.
  • Credo venga da questa stradina…lì in fondo deve esserci un giardino, ma... a memoria non ne ricordo nessuno da quelle parti…solo scale, scale per scendere giù alla marina. Mah…è anche vero però che è tanto che non ci vado…forse è tutto diverso…forse…tutto cambia e sono cambiate tante cose in questo paesino…forse non è più nemmeno un paesino…mah…. -
Il piede sinistro è nuovamente avanti e il destro lentamente lo raggiunge; un passo per volta, adagio. La stradina è stretta e scoscesa, il tratto non è molto lungo, ma il passo della vecchina è di piombo, mentre i suoi capelli raccolti non sono nemmeno più fili argentei, ma oramai solo esigui filamenti d’un bianco ingiallito; ingiallito come le foto che conserva nel cassettone, tra le lenzuola che odorano di lavanda.
Il piede sinistro segue il destro e le bianche mura delle case sono punto d’appoggio per la mano sinistra; una mano rugosa, rattrappita, che si aggrappa e suo malgrado offre una presa più sicura. La mano destra invece stringe la punta ricurva di un bastone di fortuna; un ramo contorto come le ossa che sostiene.
  • Che profumo delizioso, ma non ricordo il nome di questi fiori…proprio non mi riesce di ricordare, ma li conosco, ne sono certa…come si chiamano…come si chiamano… -
Non è il suo pensiero a pronunciare parole, ma le sue labbra inghiottite dalle rughe, in un assolo di sussurri, lievi aneliti che ora tormentano una memoria già martoriata.
Il tempo trascorso, per scendere lo stradino, la vecchina non lo ha calcolato; forse in passato le sarebbe parso interminabile e inaccettabile sprecarne tanto per una ragione così vana, ma il tempo oramai non la spaventa più, non lotta più contro di lui, non lo odia, non lo ama, semplicemente lo ignora. Ora sa solo che si è diretta dove vuole arrivare e, adagio, senz’altro con fatica, ma vi giungerà.
Svolta l’angolo flemmatica; eccolo il “giardino” che a sé l’aveva chiamata.
Un piccolo “belvedere” con grandi vasi di coccio, qua e là, posati in terra o appesi sulla ringhiera. Rigonfi di verde fogliame tempestato di bottoncini colorati, offrono profumati boccioli o grandi corolle aperte al sole.
I vasi appesi alle ringhiere, invece, paiono rampe di lancio per lunghi steli fioriti che svettano verso il cielo o che si tuffano in basso come cascate colorate che, carezzate dal vento, quasi emulano le onde del mare che si scorgono dal magnifico panorama che si offre generoso d’immagini, come un quadro dipinto.
Uno scorcio di Paradiso, un colorato sorriso verso il cielo.
  • Ecco perché non riuscivo a capire che fiore fosse…ce ne sono talmente tanti, gli aromi si sono mescolati tutti…però…che profumo! –
Il terrazzino ha una panchina in pietra bianca, rivolta a guardare il mare, e c’è una ragazza, lì seduta, con lo sguardo fisso verso l’orizzonte.
  • Picc’nè…mi posso sedere qui, vicino a te? –
La ragazza annuisce col capo e si sposta dalla sua posizione centrale per fare spazio alla vecchia signora.
Le due donne si guardano per un attimo; l’una ha la pelle liscia come i petali delle rose nei vasi lì accanto, l’occhio vivace, le labbra carnose e capelli neri come la notte che danzano morbidi nel venticello, che soffia quasi padrone di quel terrazzo, l’altra ha gli occhi già spenti, vitrei, le labbra screpolate e risucchiate dall’assenza di denti e la sua pelle è cuoio cucito quasi a nido d’ape. Un divario generazionale profondo quanto un abisso.
  • Che bel posto questo, vero “picc’nè”? Questo vento, però…pizzica… -
La vecchina tira fuori un fazzolettone dalla tasca della gonna dimenticata da ogni moda, lo piega a triangolo e lo posa sul capo, annodandolo sotto il mento.
  • Ecco qua, ora va meglio. Come ti chiami picc’nè? A chi sì fighj? –
La ragazza se la aspettava quella domanda; tipica delle persone anziane del posto: “a chi sei figlia?”.
Pochi secondi di risposta, un nome, Elisa, un soprannome e le curiosità della vecchina sono soddisfatte.
  • E che ci fa nà bella “uagliona” com’a’tte, qua, da sol? Tin ‘u uaglion? È nù mar’nar, perciò guard fiss ‘u mar? –
Elisa scuote il capo in segno di diniego, sollevando le spalle; non sembra una ragazza loquace o è solo infastidita da quella presenza profanatrice dei suoi pensieri solitari. La vecchina lo ha intuito, ma non sembra sul margine della resa e del silenzio; è tanto, troppo tempo, che non chiacchiera un po’ con qualcuno e ha forse un secolo di storie da raccontare.
  • Le vedi quelle colline di uliveti? Ho lavorato per tanti anni in quelle campagne; ogni mattina ci si alzava che ancora non era l’alba e poi tutto il giorno in ginocchio, ricurva, a raccogliere olive fino a sera. A quei tempi però la schiena, anche se indolenzita, si raddrizzava…ora, invece…che vuoi raddrizzare più… -
Elisa fa leggeri cenni con il capo alle parole della vecchia, quasi con indifferenza, senza neppure rivolgerle lo sguardo.
  • La vita era dura; ci spaccavamo le ossa per un pezzo di pane, ma…non ci lamentavamo, sai? Eravamo sempre allegre…sempre a cantare. Le sirene di terra ci chiamavano…ci sentivano persino i pescatori sulle barche… -
Gli occhi della vecchia, sono fissi verso le colline di ulivi, ma sembra che riveda tra quegli alberi, sfocate immagini ferme in un passato ormai atavico; resta così, immobile e in silenzio, quasi a riguardarle tutte, una per una, quasi a riascoltare quei canti antichi, quelle nenie, quelle risate tra contadine.
All’improvviso, la vecchia, comincia a intonare una cantilena. Elisa ne pare quasi infastidita, ma poi comincia ad ascoltarne le parole; è una canzone d’amore, un amore disperato, speranzoso, immenso e quasi se ne sente rapita.
  • Mi sposai molto giovane…mio marito era un marinaio…sempre per mare, ma mi diceva: “Tornerò sempre, il mare è mio amico” e sorrideva, carezzandomi il viso con i suoi baci. –
Una lacrima scivola a singhiozzo tra i solchi del suo viso segnato dal tempo e forse dalle troppe lacrime scese.
  • Ero incinta e lavoravo comunque, non mi pesava; non vedevo l’ora di dargli un figlio, di vederlo fiero di me…non vedevo l’ora di stringere quella creatura tra le mie braccia…di allattarlo felice…invece…
Quella parola, “invece”, suscitò finalmente l’interesse di Elisa, che cominciò a volgere il viso verso la vecchia.
  • Non tornò…non tornò più. Una maledetta tempesta me lo portò via…era il mio cuore, la mia vita…il dolore fu troppo…fu immenso…povera creatura nel grembo di una donna trafitta e lacerata dal dolore…nacque prima del tempo, ma ce la fece, sai? Era forte…come suo padre…ma a suo padre la forza non bastò… -
La sua voce ora è tremula; quel ricordo brucia ancora vivo nel suo cuore.
Il silenzio ora è sceso lapidario, sommo.
«E tuo figlio… dov’è ora, vive al paese?»
È la prima domanda che osa la giovane per spezzare quel silenzio divenuto improvvisamente sconveniente, perché troppo doloroso per la poverina; ma la giovane non sa di aver aperto un ennesima piaga nel petto della vecchia.
  • Sono molti anni che non c’è più; se lo portò via un male…una madre non dovrebbe mai sopravvivere ai suoi figli… -
Rispose, quasi sentendo sul cuore una colpa non sua.
  • Sai, picc’né…la morte non mi fa paura…io l’aspetto serena, perché so che di là ci sono i due pezzi più grandi del mio cuore…ma è beffarda la maledetta, si è dimenticata di me…
«Perché…quanti anni hai, “nonò”?» chiede Elisa con curiosità, all’ascolto di quella strana “accusa” alla morte.
  • Centosei, picc’né…il tempo si è dimenticato di fermarsi…la morte di prendermi e…la gente neanche sa più il mio nome…oramai quelli che mi conoscevano sono tutti “andati”…sono rimasta solo io…solo io…sola… -
Ora Elisa non sa più cosa dire; di certo è che fa fatica a crederle. Centosei anni; può mai essere? In paese fa clamore se un vecchio arriva ai cento, possibile che di lei si siano davvero dimenticati tutti?
ˊ«Come ti chiami, “nonò”?»
  • Angelina…Angelina Grecale, come il vento…10 maggio 1909…il mese delle rose, ma dove sono nata io, “figlia mia”, si sentiva solo l’odore del fieno e lo sterco “du ciucciaredd”; mia madre mi partorì nella stalla di mio nonno…non fece in tempo a salire in casa…ricordo che mi diceva sempre sorridendo: “t’niv frett, nun putiv asp’ttà”. -
A Elisa sfuggì un sorriso; quella vecchietta cominciava davvero a piacerle. Chissà a quanti eventi aveva assistito, aveva respirato e sofferto la guerra; ha decisamente vissuto appieno un intero secolo di storia.
  • Io non ce l’ho con il mare, sai? Il mare era suo amico e un amico ridà sempre indietro ciò che prende in prestito e, lui, me lo restituì…su una spiaggia lontana, ma me lo restituì… -
Angelina guarda verso l’orizzonte e forse i suoi occhi ancora vedono quel giovane sorridente prendere il largo in quella nave che non fece mai più ritorno. Elisa non comprende se quest’ultima frase racchiudeva in sé una nota di sarcasmo o se davvero, non solo la vecchia non odiasse il mare, ma glie ne fosse addirittura grata.
«Angelina…»
La donna ebbe un piccolo sussulto, forse perché il suo nome era stato pronunciato in un momento di rapimento nel mondo dei suoi ricordi, o forse semplicemente perché era stato pronunciato ed era da tanto che non si sentiva più chiamare da qualcuno.
  • Dimmi, dì… –
«Come hai trovato la forza? Come hai fatto ad andare avanti? Io ne sarei morta o avrei voluto morire!»
  • La forza? Il cuore si era spaccato in due, ma proprio in due, picc’né…una metà era morta con lui, ma…l’altra metà doveva pensare al piccolino…povera creatura…appena nato e già orfano di padre! Non è stato facile…no, non lo è stato per niente…per niente…quante ne abbiamo passate…tante, picc’né, tante… -
Angelina china il capo come se si sentisse ancora sotto quell’immane peso.
  • Eh, figlia mia, è stata dura, le mani mi sanguinavano per il troppo lavoro e i dolori nemmeno li contavo più, ma ce l’abbiamo fatta; l’ho fatto pure studiare, sai? È diventato un medico, un bravo medico…se ne andò a Roma, ma…veniva, veniva…veniva tutte le volte che poteva e mi chiedeva sempre di andare a vivere lì, ma…a me non piace la città…guarda…guarda che paradiso qui! Guarda che mare… -
Elisa pensò che forse la poverina non avesse mai perso la speranza che il marito tornasse, forse voleva crederlo ancora tra le onde del mare, ma vivo, altrimenti sarebbe andata a vivere con suo figlio, visto che era l’unico affetto che le era rimasto o forse davvero non concepiva di vivere lontana dal suo paesello e sperava che il figlio tornasse, per trasferirsi nel suo luogo natale.
Il pensare alla vita travagliata della vecchina e alle sue discutibili scelte, le fece dimenticare la ragione del suo “esilio” in quel punto panoramico dove faceva sentire la sua voce solo il vento e lo accompagnava il suono ritmato dell’infrangersi delle onde sugli scogli sottostanti.
  • Quarant’anni fa, mio figlio venne al paese; lo vidi pallido e debole, come nemmeno quando mangiavamo solo un tozzo di pane lo era, e aveva due valige grandi…non una sola piccola, come portava di solito, sapendo di poter restare solo pochi giorni…due, grandi così…
Disse Angelina, mimando l’altezza delle valige con un braccio sollevato forse più in alto della reale grandezza da indicare.
  • Aveva studiato tanti anni e poi si è buttato nel lavoro e solo in quello. Sai quante volte gli dicevo: “Francè, ma tu così rimarrai da solo, io non camperò in eterno…quanto ti sposi una brava figliola e mi dai un bel nipotino?”.
Lui però sorrideva e mi prendeva in giro :”donne come te non ne fanno più!”.
Lavorava troppo e non poteva mai fermarsi più d’un fine settimana; ecco perché lo capii subito che c’era qualcosa di strano quando venne con quelle due valige.
“Starò con te un po’ di più questa volta…sei contenta ora?”così mi disse, ma io me lo sentivo nel cuore che c’era qualcosa che non mi voleva far sapere, qualcosa di brutto…me lo sentivo!
Il racconto di Angelina ora si interrompe; non scendono lacrime dal suo viso, sembra solo che le parole si siano tutte improvvisamente prosciugate, forse per il doloroso ricordo o forse proprio per l’arsura di chi non parlava più così tanto, da molto, molto tempo.
All’improvviso la donna fa forza sul bastone e si tira su, guarda la ragazza e le fa un sorriso, poi volge lo sguardo verso il cielo e dice:
  • Pioverà…non c’è un osso mio che non lo grida…pioverà…e io aspetto che piova…pioverà…
E così dicendo, pian piano, a fatica, un passo dietro l’altro, lentamente va via.
Elisa ha percepito una punta di sarcasmo in quel “io aspetto”; povera donna, è davvero stanca, stanca di aspettare di poter rivedere i suoi amati, ma ha onorato sempre la vita che le è stata donata.
La ragazza non ricorda davvero più quale fosse la “grave” ragione del suo dolore nell’animo quando scelse quell’angolo di paradiso per allontanarsi da tutto e da tutti, sa solo che quell’incontro inizialmente fastidioso le ha invece giovato e impresso nel cuore una lezione di vita che difficilmente dimenticherà. 
 
© Rita Veloce


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