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PANE E ARANCE di Rita Veloce

11/17/2014

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"La felicità, proprio lei, fatta di attimi non continui…attimi non scesi dal cielo come manna a sfamar gli animi in attesa (pensiero di tanti). Piuttosto, essa si cela dentro quegli istanti che basterebbe semplicemente cogliere come frutti maturi pendenti da alberi ricurvi per la generosa pienezza delle fronde."


di Rita Veloce
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Come ogni crepuscolo di freddo inverno, sedevo sulla mia calda e comoda poltrona con il mio libro tra le mani. Così, iniziavo a viaggiare con la mente assorta in quella lettura. Ad un certo punto, sollevai il capo da quelle pagine e con lo sguardo sfocato perso nella stanza, mi misi a riflettere su quell’argomento che tanto risalto offriva alla mia attenzione. La felicità…
La felicità, proprio lei, fatta di attimi non continui…attimi non scesi dal cielo come manna a sfamar gli animi in attesa (pensiero di tanti). Piuttosto, essa si cela dentro quegli istanti che basterebbe semplicemente cogliere come frutti maturi pendenti da alberi ricurvi per la generosa pienezza delle fronde. Dovremmo smettere di aspettare invano l’evento eclatante e la maestosità e capire che l’immenso stesso è formato da miriadi di frazioni di spazio e tempo. Qualcuno potrebbe far distinzione tra felicità e gioia. Forse sto parlando di gioia. Tuttavia, se riuniamo l’insieme gioioso di tutti questi momenti deliziosi che riusciamo a gustare e ci domandiamo: “sei felice?” Sono sicura che la risposta ci sorprenderebbe. Come agire perché ciò sia possibile? Come riconoscere quegli attimi? Il mio pensiero risponde unisono con l’animo: “il cuore semplice nulla pretende gli sia dovuto e ringrazia di quel che ha”.A questo proposito, mi viene in mente una storia. Una di quelle realmente vissute, una di quelle che si ascoltano con giovane e immatura coscienza; una di quelle a cui oggi do il giusto valore.
La protagonista degli istanti che richiamo ai ricordi è Anna: una bambina di 10 anni circa che, nei lontani anni cinquanta, scrutava la nostra Italia sofferente uscire dalla seconda guerra mondiale.
Il suo paese era un piccolo borgo marinaro del sud in cui la gente s’arrangiava di pesca; talvolta sorridente per le reti pregne e talaltra piangente per il mare gramo. Agrumeti e uliveti erano anch’essi una risorsa e le donne, chine per la raccolta, scalciavano la fatica dei campi con vecchi canti popolari, simili più a nenie o cantilene che a vere canzoni. Molte case della cittadina non conoscevano l’acqua corrente che veniva, invece, raccolta alla fonte. Con le “broccate”, si riversava in lavabi di stagno smaltato da utilizzare per le pulizie personali; gli indumenti, invece, venivano lavati alla fonte stessa impiegando cenere e scopette. Una volta asciugati al sole, gli occhi erano accecati per il biancore. Le giovani recavano sul capo uno straccio arrotolato a ciambella su cui posavano le grosse bagnarole piene di panni e, con maestria senza farli cadere, percorrevano a piedi moltissima strada per raggiungere la preziosa acqua. I miei occhi par me le mostrino dinanzi, con le loro lunghe vesti, piegate a lavare le pesanti lenzuola al cospetto del ruscello. Il paese contava poche anime. Molti erano migrati al nord e all’estero come rondini in cerca di clima migliore; tuttavia, cercavano sempre di tornare a riabbracciare i cari almeno per l’evento più importante, quello più sentito dalla gente del luogo: la festa patronale. Questo perché tanta era la devozione per un quadro bizantino raffigurante una madonna di carnagione scura. Si narra che una nave veneziana, dopo averla trafugata a Costantinopoli, si arenò inspiegabilmente al largo del mare di questo borgo. L’icona si posò su una roccia del posto e la gente gridò al miracolo attribuendo un volere divino a quest’avvenimento. Le umili abitazioni ospitavano famiglie numerose raggruppate in un’unica stanza e riscaldate dal tepore del camino. Qui ci si riuniva accovacciati l’un l’altro a narrar di storie e leggende popolari. Più in là, a distanza dagli ardenti ciocchi, si posava il “cicero”, tipico vaso di terracotta atto alla lenta cottura dei legumi. La brace ardente era, inoltre, collocata nei “bracieri” dove le patate cuocevano tra le calde ceneri. L’arroventato carbone aveva anche altri usi: per stirare e, altresì, adagiate in piccole porzioni nei “caldaretti” (secchielli in alluminio), ossia riscaldamenti trasportabili che i bambini portavano a scuola insieme all’esiguo corredino di quaderni, libri e l’immancabile calamaio. L’insegnamento non era per tutti e, infatti, tanti non superavano le elementari. Non era insolito notare in una famiglia che solo uno dei figli poteva continuare gli studi ed era spesso preferito il maschio. Anna amava molto la scuola ed era bravissima, ma dovette inchinarsi a questa logica permettendo al fratello di avere un futuro migliore pur essendo meno capace. Le rinunce erano tante, ma non si lamentava mai. Era una calda mattina di luglio. Il sole splendeva alto e la ricorrenza patronale era imminente. Ovunque i preparativi fervevano e il paese si vestiva a festa. Anna era seduta sulle scale di casa sua, vicino il grande orologio alle porte della piazzetta del paese, con una bambola di pezza che lei stessa s’era cucita. Osservava  divertita il via vai affaccendato. C’era il giovane Gaetano che raccontava, ad alcuni amici, di aver visto una splendida ragazza in spiaggia quella mattina, una bellezza in pudico costume e con un gran cappello di paglia sul capo. Riferiva di aver attirato l’attenzione di lei esibendosi con spettacolari tuffi dal vecchio molto. Il figlio del fornaio passava e ripassava sotto le finestre della figlia del fruttivendolo e, con quel  naso sempre in su, più di una volta, rischiò di cadere inciampando. I brontolii di Don Ciccio si udivano per tutta la strada, mentre tirava il piccolo Vincenzo per un orecchio: lo aveva scoperto a rubar limoni nel suo agrumeto. Il padre del discolo senza pensarci su due volte, si sfilò la cintola dai pantaloni e salvò l’onore percuotendolo sui calzoncini già logori. Anna era talmente assorta a fissare quella vitalità che si accorse di una presenza solo quando l’ingombrante ombra oscurò il sole. Voltò il capo, lo vide e con un salto di gioia esultò. Era lo zio Matteo, tipico emigrante che, dopo un lungo periodo d’assenza, tornava al paese natio per riabbracciare l’anziana madre proprio in occasione della festa patronale. Il suo vestire era inappuntabile ed era elegante al punto che ad Anna sembrava un principe. Lo zio, innanzitutto, si complimentò perché la bimbetta di un tempo era ormai una signorinella. Poi la prese per mano e la portò nel vicino botteghino dove gli comprò una banana. Sì, solo una banana. Ciò nonostante, Anna non ne aveva mai mangiate per il loro costo esagerato. La sua merenda era molto più semplice ma saporita: PANE E ARANCE. Gustò l’insolito frutto con lentezza e lo assaporò con flemma, in beffa alla “bramosa” richiesta del suo palato. Dopo qualche minuto, zio Matteo mise una mano in tasca e ne cavò un pugnetto di caramelle che teneramente riversò nelle mani della bimba. Anna ringraziò il generoso gesto e corse subito da sua madre salendo le scale due per volta. Giunta in cima, con sorriso sfavillante, le raccontò l’accaduto e  le depose le caramelle sul grembo. La madre di Anna aveva da sempre lavorato china nei campi e lavato i panni alla fonte; quindi, era ben abituata alla fatica e ai sacrifici. La donna guardò la bambina e le chiese: “Anna, le dai tutte a me?” Anna sorrise e disse: ”Certo..io ne ho già mangiate e ..queste sono per te”. No, decisamente non sapeva dir bugie. Le si leggevano sul viso innocente e nei suoi limpidi occhi chiari. Tuttavia, donare quel “tesoro” a sua madre e vederla assaporare le caramelle era un attimo di felicità più immenso di quando le furono donate tra le piccole mani. Qualche anno più tardi, il paese si scontrò con il flagello della T.B.C. Tanti furono colpiti e tanti già sofferenti non sopravvissero. Anche Anna non fu risparmiata. Nonostante dovette scontrarsi con una realtà molto più dura del suo gracile essere, trovò sempre forza e ragione per ringraziare il cielo ed essere felice di ciò che di buono la vita le offriva, seppur poco fosse stato. SEPPUR AVESSE SEMPRE MANGIATO, COME UNICA DELIZIA, IL SEMPLICE PANE E ARANCE.

© Rita Veloce

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"Deportato in un lager nazista" di Cristiano Scardella

12/2/2013

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"Questa frase la percepii all’epoca come una strana sensazione inquietante come se mi volesse dire: siamo ancora qua... siete voi che dovete espiare! Forse qualcun altro colse quella frase tendente ad una esagerazione di un paragone improponibile, poiché gli orrori del Nazismo non possono essere eguagliabili."

di Cristiano Scardella
Immagineimg tratta dal web
Nei cimiteri rubano i fiori e spesso anche i vasi di rame. Gli zingari lavorano molto il rame... In realtà, può essere chiunque a rubarli. Tempo fa nella tomba di mio fratello li avevano rubati e rimessi pochi giorni dopo. Riuscirò a scoprire questo mistero? Perché dopo tanto tempo li hanno rimessi? Non so spiegarmelo... è molto difficile. Io credo di saperla la verità, ma non posso confermare... So di non poter risolvere tutti le incognite che stanno attorno ad un mistero ma, ahimè, credo di averne risolte alcune e sfiorato la verità su altre. Gli esempi sono tanti, fra cui anche un indagine psichiatrica... Credo che molte volte si trascuri il vissuto del paziente dando più importanza ai sintomi recenti, trascurando tutto ciò che li lega tra loro. Fondamentale è non dimenticare la nostra storia. Concorderà con me in questo eccellenza? Mi chiami semplicemente signor rabbino capo signor Machain ,noi non dimentichiamo i nostri morti e non dimentichiamo il significato dell’olocausto come non dimentichiamo la complicità degli italiani con Mussolini, rendendosi cosi essi stessi responsabili delle deportazioni. Io ero un bambino quando mi salvai in un quartiere (..) e tra noi vi erano pure dei Rom… Alcune persone, in quel quartiere, furono salvate da un italo americano di nome Zeb Machain! Voi Ebrei ovviamente avete pensato ai carnefici nel periodo successivo alla deportazione dei lager, dimenticandovi chi vi salvò. La sua storia è ormai datata, ma Lei non avrà difficoltà a comprenderla caro Signor Rabbino Capo! Furono gli uomini del tenente colonnello delle SS, Herbert Kappler, ad arrestarlo. Sì, il responsabile del rastrellamento che equivaleva, come Lei ben sa, alla drammatica retata di 1259 Ebrei. Sottoposto ad incessanti torture al fine di sapere chi collaborò e chi c’era dietro di lui,gli furono cavati anche gli occhi, ma da lui non ebbero nessun nome,d’altronde fece tutto da solo:non c’era nessuna organizzazione anti Tedesca dietro che potesse impensierire il Fuhrer. Lui era un cosi detto cane sciolto, caratteristica questa che ha sempre contraddistinto i Machain. Egli riuscì, nonostante tutto, a scampare al lager nazista ma morì pochi anni dopo, portandosi nella tomba tutti gli orrori di quell’infamia. Quel che accadde dopo, insieme alle conseguenze, rappresentano gli insegnamenti di quel periodo nazista. Le modalità sono le stesse con l’aggravante che sono rese ammissibili con il silenzio autorizzato dalla democrazia. Singolare il fatto che Luke Machain, 45 anni dopo,sia morto innocente in carcere in circostanze ancora oscure, per un delitto mai commesso, mentre per le autorità è suicida in una cella di isolamento. In ogni caso ha subito una carcerazione resa inumana e irregolare. Zeb, invece, sopravvisse almeno nel fisico in un lager nazista. Avevano in comune gli stessi occhi, la stessa forza e lo stesso temperamento: era un Machain , avrebbe dovuto sopravvivere anche lui in quella squallida cella di isolamento!!! Luke rimase come un sepolto vivo ,il torto maggiore era quella di abitare vicino al luogo del delitto e di esservi passato due mesi prima(obbligato per andare a casa sua) Il magistrato inquirente impiego la maggior parte del tempo a chiedere a Luke in che modo preparò le uova alla bismark, di che colore era il cappuccino, se era più scuro o chiaro. Questa straordinaria tecnica psicologica investigativa collegata ai motivi del suo arresto avrebbe dovuto suscitare più di un campanello d’allarme per chi ha avesse disgraziatamente a che fare con la cosi detta razza Ariana. Chiesero ad un amico di Luke, sempre il magistrato inquirente, come era con le donne onde verificare se vi fosse un carattere aggressivo e schizzato come quello,secondo gli inquirenti,che uccise l’uomo per il quale fu accusato Luke. Questa teoria Lombrosiana la espresse, in un dibattimento, anche un ispettore della omicidi che al momento dell’arresto lo trovò molto nervoso, proprio come quelli che uccisero il poveretto. Ma, secondo l'ispettore, lui doveva essere contento almeno si sarebbe evitato la diagnosi di killer psicopatico ,invece prese coscienza proprio dalle autorità sulla sua sorte ,convinto di andare a morire. Oh santo cielo che Dio la benedica signor Rabbino capo:Lei non è capace di mentire!!Avrei voluto sentire e vorrei sentire da un come Lei: "quel magistrato si è bevuto il cervello"!! Sopratutto in memoria di quello che accade 45 anni prima ad un altro uomo…Dopo la morte di Luke, sui muri di Karalis, comparvero scritte molto forti nei confronti dei magistrati, soprattutto nei confronti del magistrato inquirente che lo arrestò, associandolo a Kappler. Questa frase la percepii all’epoca come una strana sensazione inquietante come se mi volesse dire: siamo ancora qua... siete voi che dovete espiare! Forse qualcun altro colse quella frase tendente ad una esagerazione di un paragone improponibile, poiché gli orrori del Nazismo non possono essere eguagliabili. Noi, diciamocelo chiaro senza prenderci in giro, non ci siamo mai liberati dalla cultura nazista. Forse facciamo finta di non accorgercene. Questo lo sostengo con il massimo rispetto per quello che è accaduto agli ebrei, per uomini come Zeb Machain e per l’attuale popolo carcerario, la` dove in uno Stato, come il nostro, vige la presunzione di non colpevolezza e si subisce un'anticipazione di condanna. Ad essere condannati ad ammalarsi, a non potersi curare e ad essere ghettizzati come animali al macello, proprio come successe, con rispetto parlando, agli Ebrei e a Zeb Machain. Per quanto mi riguarda, sinceramente preferirei finire nelle mani degli uomini di Herbet Kappler,come accadde a Zeb Machain, piuttosto che in quelle di un certo tipo di polizia o di magistratura, determinati a vendicarsi (come parrebbe mi stia capitando), anche se sempre di nazisti si tratta. Forse la vecchiaia non c’entra, forse è una questione di energie che in me stanno per esaurirsi. E` per questo motivo che ho il timore di non riuscire mai a sapere perché Bisnonna Elisabetta Machain accoglieva spesso le persone con il sigaro fumante e teneva una cassa da morto sotto il letto! Soprattutto mi premerebbe sapere come sono morti i suoi tre mariti. Qualcuno ironicamente sostiene che li ha stecchiti tutti e tre. Nel cercare la verità sulla vicenda di Luke Machain, molti errori sono stati fatti da parte mia, e credo qualcuno anche fatale, altri imperdonabili... Tuttavia, sono riuscito in qualche modo a toccare la coscienza di uno che poi ha confessato, prima che provvedessero a farlo fuori, la sua partecipazione al delitto per il quale fu accusato Luke Machain. La giurisprudenza e il codice di procedura penale,credo, vietino suggerimenti all' imputato nel momento dell’interrogatorio, come è accaduto a lui e che in quella’occasione rispose: "Dottore sta sbagliando strada, la verità è questa..." Tra l’altro, la strada intesa dal P.M., in quella circostanza, era fallita tragicamente anni addietro, ancor prima di iniziare. Lo si deduce leggendo bene le carte processuali della vicenda Luke Machain. Quella storia gettò nella vergogna i magistrati dell’inchiesta assieme a molti altri colleghi che sono stati a guardare, rendendosi cosi colpevoli di omissioni. L'obbligatorietà penale che vige per tutti i cittadini... per i magistrati coinvolti nell’arresto anomalo, la morte di Luke Machain, non c'è stata nonostante vi fossero i presupposti per l'ipotesi di reato. Oggi a distanza di anni chi causò la morte di Luke, ancor prima di trasformarlo in un agnello sacrificale, ha una responsabilità solo morale. Anni dopo, uno dei miei intenti maggiori fu quello di far emergere che la sua storia non fu una semplice storia giudiziaria, ma qualcosa di più, come, ad esempio, un forte accanimento giudiziario. Forse questo obiettivo sono riuscito a raggiungerlo.. I magistrati applicano volentieri la legge ad personam. Non sembra loro vero vedere sangue e vite distrutte senza tener conto delle molte vittime innocenti, che non hanno nulla a che vedere con le vittime menzionate nelle carte processuali:mogli,figli e tutti gli altri congiunti. Molte volte mi sorge il dubbio se non preferirebbero manganellare gli imputati o porre dei fili elettrici nei loro genitali o ancora vederli condannati senza diritti e senza umanità, ovviamente tolte le dovute eccezioni. Avrei voluto dare un'altra valutazione ad Elisabetta, non quella di persona cupa e inquietante. Credo che fosse una persona molto profonda e sensibile, mentre la sua cattiva fama (se il mio intuito non fallisce) era collegabile alla rottura dei rapporti di uno dei Machain col paese natio. Attorno alla vicenda dei mariti defunti vi è una storia di altrettante morti tragiche, di cui finora nessuno ha mai voluto parlare.

P.S. Sentiremo sempre i tuoi passi anche per chi non ti ha conosciuto...
A Mariano Scardella, medaglia d’onore, deportato in un lager nazista.
~ Cristiano Scardella.


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