La Farmacia d'Epoca è un blog dedicato al collezionismo di vecchie scatole di latta di medicinali curato “un bambino che sin dalla nascita respira senza averci mai badato non sa quanto sia essenziale alla propria vita l’aria che gli gonfia così dolcemente il petto da non averlo nemmeno notato. E se, durante un accesso febbrile, una convulsione, stesse per soffocare? Nello sforzo disperato del proprio essere è quasi per la sua vita che lotta, è per la sua quiete persa che può ritrovare solo con l’aria, da cui non sapeva di essere inseparabile”. “L’Indifferente” – Marcel Proust Come trapela da queste poche righe tratte da “l’Indifferente”, per tutta la sua vita Marcel Proust visse circondato da medici e farmaci a causa di un attacco d’asma che lo colpì all’età di nove anni, creando in lui uno stato di malattia perenne ai limiti dell’ipocondria, che si ripercosse pesantemente anche nelle sue opere letterarie. Intendiamoci: ammalarsi in giovane età a fine Ottocento era una sventura inimmaginabile, soprattutto negli ambienti borghesi, dove la più piccola patologia per forza di cose si tramutava nel peggior anatema. Nonostante la medicina dell’epoca avesse fatto passi da gigante, concepiva ancora il corpo umano come una serie di ingranaggi delicati, il cui minimo spostamento o scompenso avrebbe segnato permanentemente il fisico e l’anima dello sventurato, ancor peggio se costui era un bambino. Insomma, nel 1880 non si sapeva ancora cosa fosse la difesa immunitaria, quindi l’organismo umano era percepito come “inerme” di fronte alla maggior parte delle patologie, e con la complicità dell’alta mortalità infantile che ha caratterizzato il secolo Decimonono, il povero Marcel si ritrovò ad essere considerato come “con già un piede nella fossa” ancor prima di arrivare ai dieci anni di età. Questo lo spronò verso un grado quasi estremo di ipocondria, creando in lui una sfiducia generale nei confronti dei medici che non riuscivano a curarlo. Infatti, nonostante il padre ed il fratello di Marcel fossero patologi conosciuti e rispettati negli ambienti universitari dell’epoca, lo scrittore vide sempre con sufficienza il mondo dei medici, incapaci di trovare una cura definitiva che lo strappasse a quella condizione. All’epoca del primo attacco d’asma di Proust, erano già presenti sul mercato diversi preparati farmaceutici contro l’asma, molti dei quali decisamente inusuali. Sulla fine dell’Ottocento, infatti comparvero le prime sigarette contro l’asma, le famose Sigarette d’Exibard, conosciute in Italia anche come Sigarette d’Abissinia, le carte fumigatorie azotate o allo stramonio, e con lo sviluppo delle tecniche legate agli aerosol anche i primi preparati per inalazioni come l’Antiasmatico Maffioli. Ovviamente va da sé che alcuni farmaci non fossero proprio il massimo dell’efficacia: sigarette e carte fumigatorie spesso contenevano sostanze che alla lunga potevano essere irritanti oppure peggiorare dei quadri clinici già pre-esistenti, come nel caso di asma legato ad enfisema e alcuni preparati per inalazioni avevano il pregio di possedere formulazioni al limite del fantastico e di dubbia utilità nel trattamento della patologia. La vera svolta nel trattamento dell’asma si ebbe solo nel 1949, quando Edward Calvin Kendall annunciò la scoperta dell’ormone cortisone e del suo ruolo nel sopprimere i sintomi legati alla patologia allergica, facendo diventare questa molecola per cui ricevette il premio Nobel, il farmaco d’elezione nel trattamento gli episodi asmatici. Da allora l’asma divenne una patologia sempre più trattabile, complice anche l’invenzione dell’inalatore portatile, anche se, come potete vedere in foto, i primi modelli non potevano certo fregiarsi di questo titolo. Anche se Proust teoricamente all’età di 79 anni avrebbe potuto vedere la fine della battaglia del genere umano contro l’asma, morì per una bronchite in quanto, dal momento che "Le malattie naturali guariscono, ma mai quelle create dalla medicina, perché essa ignora il segreto della guarigione", rifiutò qualunque tipo di assistenza medica, inclusa quella del fratello Robert, soccombendo alla patologia definitivamente il 18 novembre del 1922. Giulia Bovone del blog La Farmacia d’Epoca per Deliri Progressivi
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L’ uomo tornava dal lavoro, con le sue scarpe da minatore. Ogni giorno percorreva l’intera città, tagliandone le viuzze. Era da poco in quel luogo, conoscenze affatto. Camminava con la testa in giù, per il timore di incontrare la persona sbagliata. Era un armadio a quattro ante, ma nonostante la sua corpulenta imponenza, possedeva una timidezza di altri tempi. Si fermò nel solito negozio, e con una parte della paga giornaliera comprò del pane, un po’ di cacio stagionato, e mezza bottiglia di vino poco sincero. Si assopiva ogni sera, dopo aver bevuto un bicchierino di nettare di città. Tornò a casa, entrò nella sua piccola stanza, chiuse la porta, anche quella sera. I piedi gli facevano molto male, perché le sue solide calzature da inferno sopprimevano l’agio di movimenti sciolti. Se le tolse le scarpe, così come un turacciolo a sughero stappa la bottiglia di sciampagna, nell’ultimo giorno dell’anno che va via. Aveva l’indolenza del lavoro duro scolpita negli occhi, nel viso e nel cuore. Il piccolo tavolo instabile ospitava una cena spartana, ma goduta. Prese la pagnotta di pane fresco, la tagliò col coltello d’acciaio, la riempì del cacio. Assaporò il paradiso di un morso di cibo. Poi, prese la bottiglia di vinello, la aprì, ne versò un bicchiere nel recipiente di materiale plastico che aveva sulla sua povera mensola. Si sentiva strano quella sera, credeva che qualcosa sarebbe avvenuta, prima o poi. Finita la cena, prese il vecchio libro, quello scritto da un autore secoli fa. Inforcò i suoi antichi binocoli a vetro, e cominciò a leggere. Era una storia che trattava di lotte quotidiane per la sopravvivenza, di quelle brutture che i Signori bene reputano argomenti poco consoni al loro rango. C’era una volta- diceva la storia- una donna sola, robusta, che lavorava nei campi, spendendo tempo nei mestieri da agricoltore. La donna si levava alle quattro del mattino, e senza fare colazione, iniziava a governare gli animali, così come volevano i suoi genitori. Nonostante la grande fatica, la donna, guerriera ateniese, compiva ogni suo dovere col sorriso sulle labbra. S’inerpicava su quelle montagne al pari dei camosci alpha. Si chiamava Hera, viveva in un piccolo villaggio di cinquanta anime. Aveva perso i genitori in giovane età. Era Lei ora il capo famiglia. Insieme alla donna, due fratelli, chiamati da tutti ‘’i muti’’, perché parlavano poco, dedicandosi a soddisfare una fame atavica, generata dalla loro tenera età. I due fanciulli avevano però una manualità senza pari. Riuscivano infatti, ad estrarre il meglio da ciocchi di legno abbandonati sulla riva del lago. Arredarono così la magione della sorella, loro che la chiamavano mamma, perché i loro genitori non ebbero il tempo di conoscerli, questi due artigiani indiavolati. Si rotolavano come funamboli tra i prati, scivolando sullo sterno sull’erba bagnata. Ares ed Eolo erano due gioviali canaglie, sempre pronti a celiare la sorella. Avevano una pigrizia che li portava a sottrarsi ai doveri, quando la loro sorella allentava i quotidiani controlli. Erano giovani sì, ma c’era bisogno di una dose di disciplina, che Hera impartiva loro, conservando quel suo modo di fare da regina. Giunsero le undici, l’uomo scorse la quattordicesima pagina della storia, fece un segno, l’orecchio di un coniglio. ‘’Lo leggerò domani’’- disse il minatore, stanco. Si tolse gli occhiali, sciacquò i suoi occhi, e si mise a letto. Durante la notte, sentì uno scricchiolio sul tetto. No ci fece caso, perché le tegole erano vecchie, ma avevano memoria, come quei libri che conservano il segno dei loro lettori. ‘’Buonanotte, Hera, Ares ed Eolo’’- disse l’uomo. Si addormentò, con la gioia e la stanchezza di aver trovato una nuova storia, da raccontare ai suoi compagni di fatica. E l’indomani l’inferno della cava l’avrebbe atteso, ancora una volta! Vincenzo Cinanni |
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