L’ uomo tornava dal lavoro, con le sue scarpe da minatore. Ogni giorno percorreva l’intera città, tagliandone le viuzze. Era da poco in quel luogo, conoscenze affatto. Camminava con la testa in giù, per il timore di incontrare la persona sbagliata. Era un armadio a quattro ante, ma nonostante la sua corpulenta imponenza, possedeva una timidezza di altri tempi. Si fermò nel solito negozio, e con una parte della paga giornaliera comprò del pane, un po’ di cacio stagionato, e mezza bottiglia di vino poco sincero. Si assopiva ogni sera, dopo aver bevuto un bicchierino di nettare di città. Tornò a casa, entrò nella sua piccola stanza, chiuse la porta, anche quella sera. I piedi gli facevano molto male, perché le sue solide calzature da inferno sopprimevano l’agio di movimenti sciolti. Se le tolse le scarpe, così come un turacciolo a sughero stappa la bottiglia di sciampagna, nell’ultimo giorno dell’anno che va via. Aveva l’indolenza del lavoro duro scolpita negli occhi, nel viso e nel cuore. Il piccolo tavolo instabile ospitava una cena spartana, ma goduta. Prese la pagnotta di pane fresco, la tagliò col coltello d’acciaio, la riempì del cacio. Assaporò il paradiso di un morso di cibo. Poi, prese la bottiglia di vinello, la aprì, ne versò un bicchiere nel recipiente di materiale plastico che aveva sulla sua povera mensola. Si sentiva strano quella sera, credeva che qualcosa sarebbe avvenuta, prima o poi. Finita la cena, prese il vecchio libro, quello scritto da un autore secoli fa. Inforcò i suoi antichi binocoli a vetro, e cominciò a leggere. Era una storia che trattava di lotte quotidiane per la sopravvivenza, di quelle brutture che i Signori bene reputano argomenti poco consoni al loro rango. C’era una volta- diceva la storia- una donna sola, robusta, che lavorava nei campi, spendendo tempo nei mestieri da agricoltore. La donna si levava alle quattro del mattino, e senza fare colazione, iniziava a governare gli animali, così come volevano i suoi genitori. Nonostante la grande fatica, la donna, guerriera ateniese, compiva ogni suo dovere col sorriso sulle labbra. S’inerpicava su quelle montagne al pari dei camosci alpha. Si chiamava Hera, viveva in un piccolo villaggio di cinquanta anime. Aveva perso i genitori in giovane età. Era Lei ora il capo famiglia. Insieme alla donna, due fratelli, chiamati da tutti ‘’i muti’’, perché parlavano poco, dedicandosi a soddisfare una fame atavica, generata dalla loro tenera età. I due fanciulli avevano però una manualità senza pari. Riuscivano infatti, ad estrarre il meglio da ciocchi di legno abbandonati sulla riva del lago. Arredarono così la magione della sorella, loro che la chiamavano mamma, perché i loro genitori non ebbero il tempo di conoscerli, questi due artigiani indiavolati. Si rotolavano come funamboli tra i prati, scivolando sullo sterno sull’erba bagnata. Ares ed Eolo erano due gioviali canaglie, sempre pronti a celiare la sorella. Avevano una pigrizia che li portava a sottrarsi ai doveri, quando la loro sorella allentava i quotidiani controlli. Erano giovani sì, ma c’era bisogno di una dose di disciplina, che Hera impartiva loro, conservando quel suo modo di fare da regina. Giunsero le undici, l’uomo scorse la quattordicesima pagina della storia, fece un segno, l’orecchio di un coniglio. ‘’Lo leggerò domani’’- disse il minatore, stanco. Si tolse gli occhiali, sciacquò i suoi occhi, e si mise a letto. Durante la notte, sentì uno scricchiolio sul tetto. No ci fece caso, perché le tegole erano vecchie, ma avevano memoria, come quei libri che conservano il segno dei loro lettori. ‘’Buonanotte, Hera, Ares ed Eolo’’- disse l’uomo. Si addormentò, con la gioia e la stanchezza di aver trovato una nuova storia, da raccontare ai suoi compagni di fatica. E l’indomani l’inferno della cava l’avrebbe atteso, ancora una volta! Vincenzo Cinanni
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Settembre 2024
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