Come ogni crepuscolo di freddo inverno, sedevo sulla mia calda e comoda poltrona con il mio libro tra le mani. Così, iniziavo a viaggiare con la mente assorta in quella lettura. Ad un certo punto, sollevai il capo da quelle pagine e con lo sguardo sfocato perso nella stanza, mi misi a riflettere su quell’argomento che tanto risalto offriva alla mia attenzione. La felicità… La felicità, proprio lei, fatta di attimi non continui…attimi non scesi dal cielo come manna a sfamar gli animi in attesa (pensiero di tanti). Piuttosto, essa si cela dentro quegli istanti che basterebbe semplicemente cogliere come frutti maturi pendenti da alberi ricurvi per la generosa pienezza delle fronde. Dovremmo smettere di aspettare invano l’evento eclatante e la maestosità e capire che l’immenso stesso è formato da miriadi di frazioni di spazio e tempo. Qualcuno potrebbe far distinzione tra felicità e gioia. Forse sto parlando di gioia. Tuttavia, se riuniamo l’insieme gioioso di tutti questi momenti deliziosi che riusciamo a gustare e ci domandiamo: “sei felice?” Sono sicura che la risposta ci sorprenderebbe. Come agire perché ciò sia possibile? Come riconoscere quegli attimi? Il mio pensiero risponde unisono con l’animo: “il cuore semplice nulla pretende gli sia dovuto e ringrazia di quel che ha”.A questo proposito, mi viene in mente una storia. Una di quelle realmente vissute, una di quelle che si ascoltano con giovane e immatura coscienza; una di quelle a cui oggi do il giusto valore. La protagonista degli istanti che richiamo ai ricordi è Anna: una bambina di 10 anni circa che, nei lontani anni cinquanta, scrutava la nostra Italia sofferente uscire dalla seconda guerra mondiale. Il suo paese era un piccolo borgo marinaro del sud in cui la gente s’arrangiava di pesca; talvolta sorridente per le reti pregne e talaltra piangente per il mare gramo. Agrumeti e uliveti erano anch’essi una risorsa e le donne, chine per la raccolta, scalciavano la fatica dei campi con vecchi canti popolari, simili più a nenie o cantilene che a vere canzoni. Molte case della cittadina non conoscevano l’acqua corrente che veniva, invece, raccolta alla fonte. Con le “broccate”, si riversava in lavabi di stagno smaltato da utilizzare per le pulizie personali; gli indumenti, invece, venivano lavati alla fonte stessa impiegando cenere e scopette. Una volta asciugati al sole, gli occhi erano accecati per il biancore. Le giovani recavano sul capo uno straccio arrotolato a ciambella su cui posavano le grosse bagnarole piene di panni e, con maestria senza farli cadere, percorrevano a piedi moltissima strada per raggiungere la preziosa acqua. I miei occhi par me le mostrino dinanzi, con le loro lunghe vesti, piegate a lavare le pesanti lenzuola al cospetto del ruscello. Il paese contava poche anime. Molti erano migrati al nord e all’estero come rondini in cerca di clima migliore; tuttavia, cercavano sempre di tornare a riabbracciare i cari almeno per l’evento più importante, quello più sentito dalla gente del luogo: la festa patronale. Questo perché tanta era la devozione per un quadro bizantino raffigurante una madonna di carnagione scura. Si narra che una nave veneziana, dopo averla trafugata a Costantinopoli, si arenò inspiegabilmente al largo del mare di questo borgo. L’icona si posò su una roccia del posto e la gente gridò al miracolo attribuendo un volere divino a quest’avvenimento. Le umili abitazioni ospitavano famiglie numerose raggruppate in un’unica stanza e riscaldate dal tepore del camino. Qui ci si riuniva accovacciati l’un l’altro a narrar di storie e leggende popolari. Più in là, a distanza dagli ardenti ciocchi, si posava il “cicero”, tipico vaso di terracotta atto alla lenta cottura dei legumi. La brace ardente era, inoltre, collocata nei “bracieri” dove le patate cuocevano tra le calde ceneri. L’arroventato carbone aveva anche altri usi: per stirare e, altresì, adagiate in piccole porzioni nei “caldaretti” (secchielli in alluminio), ossia riscaldamenti trasportabili che i bambini portavano a scuola insieme all’esiguo corredino di quaderni, libri e l’immancabile calamaio. L’insegnamento non era per tutti e, infatti, tanti non superavano le elementari. Non era insolito notare in una famiglia che solo uno dei figli poteva continuare gli studi ed era spesso preferito il maschio. Anna amava molto la scuola ed era bravissima, ma dovette inchinarsi a questa logica permettendo al fratello di avere un futuro migliore pur essendo meno capace. Le rinunce erano tante, ma non si lamentava mai. Era una calda mattina di luglio. Il sole splendeva alto e la ricorrenza patronale era imminente. Ovunque i preparativi fervevano e il paese si vestiva a festa. Anna era seduta sulle scale di casa sua, vicino il grande orologio alle porte della piazzetta del paese, con una bambola di pezza che lei stessa s’era cucita. Osservava divertita il via vai affaccendato. C’era il giovane Gaetano che raccontava, ad alcuni amici, di aver visto una splendida ragazza in spiaggia quella mattina, una bellezza in pudico costume e con un gran cappello di paglia sul capo. Riferiva di aver attirato l’attenzione di lei esibendosi con spettacolari tuffi dal vecchio molto. Il figlio del fornaio passava e ripassava sotto le finestre della figlia del fruttivendolo e, con quel naso sempre in su, più di una volta, rischiò di cadere inciampando. I brontolii di Don Ciccio si udivano per tutta la strada, mentre tirava il piccolo Vincenzo per un orecchio: lo aveva scoperto a rubar limoni nel suo agrumeto. Il padre del discolo senza pensarci su due volte, si sfilò la cintola dai pantaloni e salvò l’onore percuotendolo sui calzoncini già logori. Anna era talmente assorta a fissare quella vitalità che si accorse di una presenza solo quando l’ingombrante ombra oscurò il sole. Voltò il capo, lo vide e con un salto di gioia esultò. Era lo zio Matteo, tipico emigrante che, dopo un lungo periodo d’assenza, tornava al paese natio per riabbracciare l’anziana madre proprio in occasione della festa patronale. Il suo vestire era inappuntabile ed era elegante al punto che ad Anna sembrava un principe. Lo zio, innanzitutto, si complimentò perché la bimbetta di un tempo era ormai una signorinella. Poi la prese per mano e la portò nel vicino botteghino dove gli comprò una banana. Sì, solo una banana. Ciò nonostante, Anna non ne aveva mai mangiate per il loro costo esagerato. La sua merenda era molto più semplice ma saporita: PANE E ARANCE. Gustò l’insolito frutto con lentezza e lo assaporò con flemma, in beffa alla “bramosa” richiesta del suo palato. Dopo qualche minuto, zio Matteo mise una mano in tasca e ne cavò un pugnetto di caramelle che teneramente riversò nelle mani della bimba. Anna ringraziò il generoso gesto e corse subito da sua madre salendo le scale due per volta. Giunta in cima, con sorriso sfavillante, le raccontò l’accaduto e le depose le caramelle sul grembo. La madre di Anna aveva da sempre lavorato china nei campi e lavato i panni alla fonte; quindi, era ben abituata alla fatica e ai sacrifici. La donna guardò la bambina e le chiese: “Anna, le dai tutte a me?” Anna sorrise e disse: ”Certo..io ne ho già mangiate e ..queste sono per te”. No, decisamente non sapeva dir bugie. Le si leggevano sul viso innocente e nei suoi limpidi occhi chiari. Tuttavia, donare quel “tesoro” a sua madre e vederla assaporare le caramelle era un attimo di felicità più immenso di quando le furono donate tra le piccole mani. Qualche anno più tardi, il paese si scontrò con il flagello della T.B.C. Tanti furono colpiti e tanti già sofferenti non sopravvissero. Anche Anna non fu risparmiata. Nonostante dovette scontrarsi con una realtà molto più dura del suo gracile essere, trovò sempre forza e ragione per ringraziare il cielo ed essere felice di ciò che di buono la vita le offriva, seppur poco fosse stato. SEPPUR AVESSE SEMPRE MANGIATO, COME UNICA DELIZIA, IL SEMPLICE PANE E ARANCE. © Rita Veloce
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