
- Che intenso profumo di fiori! –
- Credo venga da questa stradina…lì in fondo deve esserci un giardino, ma... a memoria non ne ricordo nessuno da quelle parti…solo scale, scale per scendere giù alla marina. Mah…è anche vero però che è tanto che non ci vado…forse è tutto diverso…forse…tutto cambia e sono cambiate tante cose in questo paesino…forse non è più nemmeno un paesino…mah…. -
Il piede sinistro segue il destro e le bianche mura delle case sono punto d’appoggio per la mano sinistra; una mano rugosa, rattrappita, che si aggrappa e suo malgrado offre una presa più sicura. La mano destra invece stringe la punta ricurva di un bastone di fortuna; un ramo contorto come le ossa che sostiene.
- Che profumo delizioso, ma non ricordo il nome di questi fiori…proprio non mi riesce di ricordare, ma li conosco, ne sono certa…come si chiamano…come si chiamano… -
Il tempo trascorso, per scendere lo stradino, la vecchina non lo ha calcolato; forse in passato le sarebbe parso interminabile e inaccettabile sprecarne tanto per una ragione così vana, ma il tempo oramai non la spaventa più, non lotta più contro di lui, non lo odia, non lo ama, semplicemente lo ignora. Ora sa solo che si è diretta dove vuole arrivare e, adagio, senz’altro con fatica, ma vi giungerà.
Svolta l’angolo flemmatica; eccolo il “giardino” che a sé l’aveva chiamata.
Un piccolo “belvedere” con grandi vasi di coccio, qua e là, posati in terra o appesi sulla ringhiera. Rigonfi di verde fogliame tempestato di bottoncini colorati, offrono profumati boccioli o grandi corolle aperte al sole.
I vasi appesi alle ringhiere, invece, paiono rampe di lancio per lunghi steli fioriti che svettano verso il cielo o che si tuffano in basso come cascate colorate che, carezzate dal vento, quasi emulano le onde del mare che si scorgono dal magnifico panorama che si offre generoso d’immagini, come un quadro dipinto.
Uno scorcio di Paradiso, un colorato sorriso verso il cielo.
- Ecco perché non riuscivo a capire che fiore fosse…ce ne sono talmente tanti, gli aromi si sono mescolati tutti…però…che profumo! –
- Picc’nè…mi posso sedere qui, vicino a te? –
Le due donne si guardano per un attimo; l’una ha la pelle liscia come i petali delle rose nei vasi lì accanto, l’occhio vivace, le labbra carnose e capelli neri come la notte che danzano morbidi nel venticello, che soffia quasi padrone di quel terrazzo, l’altra ha gli occhi già spenti, vitrei, le labbra screpolate e risucchiate dall’assenza di denti e la sua pelle è cuoio cucito quasi a nido d’ape. Un divario generazionale profondo quanto un abisso.
- Che bel posto questo, vero “picc’nè”? Questo vento, però…pizzica… -
- Ecco qua, ora va meglio. Come ti chiami picc’nè? A chi sì fighj? –
Pochi secondi di risposta, un nome, Elisa, un soprannome e le curiosità della vecchina sono soddisfatte.
- E che ci fa nà bella “uagliona” com’a’tte, qua, da sol? Tin ‘u uaglion? È nù mar’nar, perciò guard fiss ‘u mar? –
- Le vedi quelle colline di uliveti? Ho lavorato per tanti anni in quelle campagne; ogni mattina ci si alzava che ancora non era l’alba e poi tutto il giorno in ginocchio, ricurva, a raccogliere olive fino a sera. A quei tempi però la schiena, anche se indolenzita, si raddrizzava…ora, invece…che vuoi raddrizzare più… -
- La vita era dura; ci spaccavamo le ossa per un pezzo di pane, ma…non ci lamentavamo, sai? Eravamo sempre allegre…sempre a cantare. Le sirene di terra ci chiamavano…ci sentivano persino i pescatori sulle barche… -
All’improvviso, la vecchia, comincia a intonare una cantilena. Elisa ne pare quasi infastidita, ma poi comincia ad ascoltarne le parole; è una canzone d’amore, un amore disperato, speranzoso, immenso e quasi se ne sente rapita.
- Mi sposai molto giovane…mio marito era un marinaio…sempre per mare, ma mi diceva: “Tornerò sempre, il mare è mio amico” e sorrideva, carezzandomi il viso con i suoi baci. –
- Ero incinta e lavoravo comunque, non mi pesava; non vedevo l’ora di dargli un figlio, di vederlo fiero di me…non vedevo l’ora di stringere quella creatura tra le mie braccia…di allattarlo felice…invece…
- Non tornò…non tornò più. Una maledetta tempesta me lo portò via…era il mio cuore, la mia vita…il dolore fu troppo…fu immenso…povera creatura nel grembo di una donna trafitta e lacerata dal dolore…nacque prima del tempo, ma ce la fece, sai? Era forte…come suo padre…ma a suo padre la forza non bastò… -
Il silenzio ora è sceso lapidario, sommo.
«E tuo figlio… dov’è ora, vive al paese?»
È la prima domanda che osa la giovane per spezzare quel silenzio divenuto improvvisamente sconveniente, perché troppo doloroso per la poverina; ma la giovane non sa di aver aperto un ennesima piaga nel petto della vecchia.
- Sono molti anni che non c’è più; se lo portò via un male…una madre non dovrebbe mai sopravvivere ai suoi figli… -
- Sai, picc’né…la morte non mi fa paura…io l’aspetto serena, perché so che di là ci sono i due pezzi più grandi del mio cuore…ma è beffarda la maledetta, si è dimenticata di me…
- Centosei, picc’né…il tempo si è dimenticato di fermarsi…la morte di prendermi e…la gente neanche sa più il mio nome…oramai quelli che mi conoscevano sono tutti “andati”…sono rimasta solo io…solo io…sola… -
ˊ«Come ti chiami, “nonò”?»
- Angelina…Angelina Grecale, come il vento…10 maggio 1909…il mese delle rose, ma dove sono nata io, “figlia mia”, si sentiva solo l’odore del fieno e lo sterco “du ciucciaredd”; mia madre mi partorì nella stalla di mio nonno…non fece in tempo a salire in casa…ricordo che mi diceva sempre sorridendo: “t’niv frett, nun putiv asp’ttà”. -
- Io non ce l’ho con il mare, sai? Il mare era suo amico e un amico ridà sempre indietro ciò che prende in prestito e, lui, me lo restituì…su una spiaggia lontana, ma me lo restituì… -
«Angelina…»
La donna ebbe un piccolo sussulto, forse perché il suo nome era stato pronunciato in un momento di rapimento nel mondo dei suoi ricordi, o forse semplicemente perché era stato pronunciato ed era da tanto che non si sentiva più chiamare da qualcuno.
- Dimmi, dì… –
- La forza? Il cuore si era spaccato in due, ma proprio in due, picc’né…una metà era morta con lui, ma…l’altra metà doveva pensare al piccolino…povera creatura…appena nato e già orfano di padre! Non è stato facile…no, non lo è stato per niente…per niente…quante ne abbiamo passate…tante, picc’né, tante… -
- Eh, figlia mia, è stata dura, le mani mi sanguinavano per il troppo lavoro e i dolori nemmeno li contavo più, ma ce l’abbiamo fatta; l’ho fatto pure studiare, sai? È diventato un medico, un bravo medico…se ne andò a Roma, ma…veniva, veniva…veniva tutte le volte che poteva e mi chiedeva sempre di andare a vivere lì, ma…a me non piace la città…guarda…guarda che paradiso qui! Guarda che mare… -
Il pensare alla vita travagliata della vecchina e alle sue discutibili scelte, le fece dimenticare la ragione del suo “esilio” in quel punto panoramico dove faceva sentire la sua voce solo il vento e lo accompagnava il suono ritmato dell’infrangersi delle onde sugli scogli sottostanti.
- Quarant’anni fa, mio figlio venne al paese; lo vidi pallido e debole, come nemmeno quando mangiavamo solo un tozzo di pane lo era, e aveva due valige grandi…non una sola piccola, come portava di solito, sapendo di poter restare solo pochi giorni…due, grandi così…
- Aveva studiato tanti anni e poi si è buttato nel lavoro e solo in quello. Sai quante volte gli dicevo: “Francè, ma tu così rimarrai da solo, io non camperò in eterno…quanto ti sposi una brava figliola e mi dai un bel nipotino?”.
Lavorava troppo e non poteva mai fermarsi più d’un fine settimana; ecco perché lo capii subito che c’era qualcosa di strano quando venne con quelle due valige.
“Starò con te un po’ di più questa volta…sei contenta ora?”così mi disse, ma io me lo sentivo nel cuore che c’era qualcosa che non mi voleva far sapere, qualcosa di brutto…me lo sentivo!
Il racconto di Angelina ora si interrompe; non scendono lacrime dal suo viso, sembra solo che le parole si siano tutte improvvisamente prosciugate, forse per il doloroso ricordo o forse proprio per l’arsura di chi non parlava più così tanto, da molto, molto tempo.
All’improvviso la donna fa forza sul bastone e si tira su, guarda la ragazza e le fa un sorriso, poi volge lo sguardo verso il cielo e dice:
- Pioverà…non c’è un osso mio che non lo grida…pioverà…e io aspetto che piova…pioverà…
Elisa ha percepito una punta di sarcasmo in quel “io aspetto”; povera donna, è davvero stanca, stanca di aspettare di poter rivedere i suoi amati, ma ha onorato sempre la vita che le è stata donata.
La ragazza non ricorda davvero più quale fosse la “grave” ragione del suo dolore nell’animo quando scelse quell’angolo di paradiso per allontanarsi da tutto e da tutti, sa solo che quell’incontro inizialmente fastidioso le ha invece giovato e impresso nel cuore una lezione di vita che difficilmente dimenticherà.
© Rita Veloce