La notte era particolarmente buia tra quelle strade; i passi della donna echeggiavano in un aria che odorava di nulla. Scarpe nere, con un tacco discretamente alto; il passo era lento, ma non incerto. La via imboccata costeggiava il fiume e presto sarebbe giunta sul “ponte dei disperati”. Sull’asfalto c’erano ancora tracce di un piovasco improvviso, sceso nel tardo pomeriggio. Su di una pozzanghera si rifletteva un debole scorcio di luna; un flebile bagliore che cercava di farsi largo tra le nubi dense che ingoiavano le stelle. A filo d’acqua c’era un bigliettino bianco, che pareva essersi appena posato. La donna fermò le punte delle scarpe proprio dinanzi ad esso, quasi le importasse qualcosa del destino di quel pezzo di carta ripudiato da chissà chi. Si chinò e lo raccolse delicatamente, come fosse una reliquia del fato, ma senza spiegarsene la ragione, visto che dentro di sé sentiva una lama gelida di apatia attraversarle l’animo da parte a parte. Le sue mani sembravano decidere da sé e tenevano ben stretto tra le dita quel misterioso pezzo di carta. Le unghia risaltavano su quel biancore; erano ben curate e mostravano uno smalto rosso scuro, ancora perfetto. Gli occhi, incuriositi, sfidarono la penombra e cominciarono a leggere le parole scritte: “Ti sei mai chiesto se esistono gli angeli? Io ogni notte guardo il cielo aspettandoli. Hai mai alzato gli occhi al cielo?”. «Sembra il pensiero di un allucinato, un alienato; cosa vorrà mai dire? Forse nulla e, comunque, non è riferito a me». Il pensiero della donna quasi si udiva in quel silenzio irreale, ma proprio mentre concepiva di restituire alla pozzanghera quel foglietto, ecco che qualcosa le sfiora i capelli; un secondo pezzo di carta le scivola sulla spalla, per poi ricaderle ai piedi, nello stesso punto della pozza d’acqua dove aveva raccolto l’altro. Non soffiava un alito di vento, quindi, pensò, è senz’altro qualche burlone che non ha nulla di meglio da fare che lanciare pezzi di carta da una di queste finestre. Alzò lo sguardo verso le vecchie palazzine di quella strada, ma non vi scorse nulla che le potesse suggerire da dove venissero con esattezza, né anima viva affacciata o che solo si scorgesse dietro i vetri. Tuttavia raccolse anche questo biglietto e lo lesse: “Ci sono luci anche nell’oscurità; sono fiaccole spente che null’altro ambiscono se non di poter essere accese per donarsi a te splendenti”. Ma che…? Fiaccole spente…non vedo fiaccole… Pensò la donna tra sé e sé. Lasciò scivolare dai palmi aperti e tornati vuoti, quei foglietti insignificanti e riprese, lento, il passo; ma non ebbe a farli più di tre o quattro che un lieve alito di vento le sfiorò un viso ormai secco di lacrime e un terzo coriandolo di carta gli svolazzò dinanzi come una farfalla sperduta. Aveva snobbato la pozzanghera e pareva deciso a danzargli proprio attorno, svolazzando irregolare. Nagaia (il nome della donna) lo afferrò al volo, sentendosene quasi sfidata. Questa volta lo stese in fretta, leggendolo con voracità, per quanto, da subito, le si mostrasse più lungo: “Ti sei mai chiesto se esistono gli angeli? Io ogni notte guardo il cielo aspettandoli. Hai mai alzato gli occhi al cielo? Ci sono cieli anche nelle pozzanghere. Hai mai visto la luce degli angeli? In ogni notte buia, io l’attendo. Hai mai aperto gli occhi alla luce? Ci sono luci anche nell’oscurità; sono fiaccole spente che null’altro ambiscono se non di poter essere accese per donarsi a te splendenti…” Ma è una poesia…erano pezzi di una poesia…ma di chi? Una poesia piovuta dal cielo… Pronunciò, questa volta sussurrando con un fil di voce, e rialzando lo sguardo verso tutto ciò che la circondava. I muri dei palazzi avevano un aria omertosa e tutte le finestre che scorgeva sembravano ben chiuse e mute, abbandonate a sonni profondi. Tutte, tranne… La scorgeva solo ora; era la finestra d’una mansarda…buia, ma aperta. Nagaia sofferma lo sguardo verso quell’apertura scura sperando di scorgere una mano sporgersi per lanciare un ennesimo pezzo di carta, una frase, una poesia; quelle strane poesie piovute dal cielo d’una notte senza luna, in una vita che oramai non sperava più di riscoprire interessi, emozioni. Nulla. Nessun movimento, neppure una piccola lucina rossa, sfavillio di sigaretta; ma la donna, ora, era decisa a svelare il mistero e non si sarebbe allontanata da quel posto senza prima capire. Cominciò così a guardarsi attorno, puntando lo sguardo sull’asfalto, in ogni angolo di quella strada, nel tentativo di scorgere altri foglietti, altre frasi che terminassero quella poesia o parole che potessero svelarle indizi utili a comprendere lo scopo o il mittente di quelle strane “missive”. “Eccone un altro…” sussurrò con un sussulto quasi gioioso e mentre si cingeva a raccoglierlo, un ennesimo fogliettino scese dolcemente dall’alto per planare poco distante da lei. Nagaia alzò subito lo sguardo verso quell’unica finestra aperta. Nessuna ombra umana si plasmò su quel misero davanzale; quei fogliettini sembravano davvero scesi dal nulla, o dal cielo scuro di quella notte misteriosa. «Ehilà...» pronunciò timidamente la donna, confidando ben poco in un cenno di risposta al suo richiamo. Infatti il silenzio continuò sovrano e la sua voce non ebbe neppure un eco di ritorno. Tutto taceva; quasi sembrava che nessun’anima abitasse quella grigia palazzina. Nagaia aprì il primo di quegli ultimi due pezzi di carta recuperati: “Se guardi oltre il tuo dolore potrai vedere la mia anima e la tua cercarsi, per illuminare insieme la notte. Perché vuoi camminare da sola verso il nulla? Non abitano lì gli angeli e non v’è luce nella resa”. Le dita affusolate della donna cominciarono a tremare; questa volta quelle parole sembravano scritte per lei. Temeva di tornare a credere in qualcosa, in qualcuno, di ricominciare a sperare. Era stato tutto troppo doloroso fino ad allora; emozionarsi di nuovo, riaprire le porte del suo cuore, lasciare la sua anima nuovamente libera di sognare, la terrorizzava. “No…” pensò tra sé e sé “è solo la mia debolezza che cerca scuse per desistere dalla decisione presa…devo riprendere il controllo di me”. L’altro foglietto rimaneva serrato nel suo pugno, tra la curiosità di leggere anche quelle parole e il timore del loro senso così incredibilmente calzante. Intanto le nubi lasciarono libera la luna che cominciò a splendere fiera come ogni notte serena, ma senza lasciare intravedere un cielo completamente terso e stellato. La luce della luna non può non toccare gli animi più sensibili e diviene più difficile ripudiare la vita. “Quante volte sono caduta e mi sono rialzata? Quante volte ho voluto dare ancora una possibilità a me stessa e al destino? E cosa ho ottenuto? Altro dolore, altre lacrime, altre rovinose cadute. Cosa mi prende ora? Perché il mio passo si è fermato in questa anonima strada, perché non restituisco alla fanghiglia di quella pozzanghera questi inutili pezzetti di carta e proseguo verso il ponte?” Nagaia interrogava la sua anima, ma la risposta era già nel suo cuore. “La vita è un dono meraviglioso, perché gettarlo via? Da qualche parte ci sarà di certo chi potrebbe avere bisogno di me; forse dovrei dimenticare i miei desideri, i miei sogni, le mie aspettative e dedicarmi a chi è solo come me, aiutare chi si è perduto, come me…forse mi ritroverei anch’io…forse dovrei darmi un ultima possibilità…forse…” E mentre la donna si tormentava nei dubbi, il palmo della mano si aprì e lo sguardo subito prese a frugare tra quei nuovi righi scritti: “Colui che insegue la morte non è mai stato vivo, poiché solo chi ha davvero vissuto sa di quali meraviglie si priverebbe arrendendosi ad essa; meraviglie che valgono mille volte di più dell’obolo che paghi”. Nagaia crolla sulle ginocchia, lì sull’asfalto ancora bagnato e copiose lacrime liberatorie s’uniscono all’acqua piovana, mentre un vento dolce, ma deciso, sfiorandole i capelli pare sussurrarle: “Presto spazzerò via tutte le nubi e rivedrai il sereno”. Non sa bene quanto tempo sia passato da quando ha raccolto quel primo foglietto, sa solo che sta oramai albeggiando. Nagaia si rialza, infila tutti quei pezzi di carta nella tasca del vestito, seppur un po’ bagnati e sporchi, passa le mani sulle ginocchia cercando di ripulirsi dall’umida polvere dell’asfalto, un ultimo sguardo a quella finestra e poi tutt’intorno al palazzo, per capire a quale entrata appartenesse quel piano. Non sapeva ancora bene cosa avrebbe fatto, ma sapeva con certezza che non sarebbe andata via senza fare qualcosa, anche solo un tentativo. Se era quella finestra la porta del cielo dalla quale le poesie volavano giù, un nome sul campanello del portone ci sarà stato di sicuro, anche se, non sapeva ancora a cosa le sarebbe servito. Sarebbe stato solo un nome; null’altro le avrebbe svelato e…cosa avrebbe dovuto fare dopo, suonare e chiedere candidamente : “mi scusi, è lei che lancia poesie dalla finestra?”; certamente no. Ma, allora, cosa? Ci avrebbe pensato dopo…ora voleva leggere quel nome e l’entrata probabile era una soltanto, così si avvicinò a quel vecchio portone scrostato di vernici, di legno ormai vecchio e malconcio. Niente, nessun campanello, nessun nome, neppure scritto con un pennarello in qualche angolo. Lo aveva esaminato tutto con estrema attenzione. Nulla. Tuttavia…il portone era semichiuso. Nagaia posò esitando, la mano su d’un anta e, delicatamente, cominciò a spingere per aprirlo almeno quanto bastasse per dare una sbirciatina al suo interno. Nell’atrio si scorgeva una lampadina penzoloni e rotta; per terra ancora i vetri. Tutto denunciava una situazione d’abbandono, di luogo disabitato; eppure qualcuno, lì sopra, nella mansarda, doveva esserci, pensò la donna. Intanto un raggio di sole entrò, dividendosi in più sfaccettature, da ogni finestra o fessura di muro fatiscente, illuminando la scalinata quasi come fosse un invito a salire. La donna non ebbe un solo attimo di esitazione e, concedendo uno sguardo attento alla gradinata avanti e a quella lasciata dietro di sé, con calma salì tutti e tre i piani, fino a ritrovarsi a quattro gradini verso la mansarda.. Si soffermò a riprendere fiato e fissò a lungo quell’uscio solo lievemente aperto; doveva salire quegli ultimi gradini e bussare, gli serviva solo riprendere fiato, ma lo avrebbe fatto. Intanto passarono, inconsapevoli, diversi minuti, durante i quali pensieri e congetture si contorsero in danze orientali nella sua mente, come sinuose ballerine. All’improvviso salì fulminea quel breve lasso di spazio che la divideva dall’avere finalmente tutte le risposte alle domande fattesi fino a quell’istante; perché indugiare oltre? La mano si posò sull’uscio a palmo aperto, poi si richiuse a pugno e bussò, dapprima delicatamente e dopo qualche istante di sconfortante silenzio, più energicamente. Nulla; nessuna risposta. Nagaia allora riaprì il palmo e lo spinse adagio, con discrezione, contro l’uscio. La porta si aprì duramente e cigolando, come se nessuno l’aprisse più da tanto, tanto tempo. Non entrò subito; si fermò ad osservare l’ambiente interno, da parte a parte, in ogni suo angolo visibile. Le finestre erano più di una; senza telaiatura e vetri, o con vetri rotti. Il tetto era fatto con travi e in molti punti si scorgevano grosse fessure; nulla di meno improbabile che qualche uccello migratore abbia lasciato lì il suo nido per poi tornarvi in tempi più miti. Non c’erano mobili, neppure accatastati in un angolo come si potrebbe far d’uso in una soffitta. Nulla, fatta eccezione per un tavolino, posizionato al centro, e una sedia, con una gamba rotta, che restava dritta poco più là. Sul tavolino non c’era nulla, tranne una vecchia penna. In terra, invece, c’erano tanti fogli, pagine di quaderni e pezzetti vari di carta ingiallita. Alcuni di loro danzavano tra soffitto e pavimento, sospinti dalla corrente d’aria che si creava da finestra a finestra. La donna varcò la soglia giusto in tempo per vedere uno di quei fogliettini volar fuori dalla finestra. Era quella la risposta alle sue domande? Solo uno scherzo del vento in una soffitta abbandonata? Tutto lì il grande mistero che così tanto l’aveva stuzzicata, fino a rivoluzionargli ogni altro intento? Una sensazione di sconfitta le fluì nelle vene e un senso di totale sconforto la piegò nuovamente sulle ginocchia. Di nuovo beffata dal destino; di nuovo illusa, tradita nei sogni, nelle speranze? Nagaia rimase immobile con lo sguardo verso il nulla e soltanto “nulla” sembrava tutto ciò in cui si era imbattuta quella notte. Nessun uomo, nessuna donna, nessun angelo…non c’era neppure un gatto randagio in quella mansarda. Le mani si misero a sfiorare quei foglietti riversati sul pavimento e nuovamente, come rispondendo ad una loro indipendente volontà, ne afferrano un mucchietto. Lo sguardo sembra essere più testardo delle volontà arresa di Nagaia, come pure ogni altra parte di sé, e comincia nuovamente a rovistare famelico tra quegli scritti. Altre poesie, altre frasi e forse racconti. Tra le tante, una colpì l’animo di Nagaia, seppur non la capisse a fondo; la sentiva dentro, specchio delle sue sofferenze: A volte mi guardo allo specchio e non vedo nulla, nessun riflesso che mi somigli, nessuna immagine se non quella di ciò che mi circonda. Eppure esisto e il mio cuore batte; il mio petto ancora si emoziona. Sulle mie gote ancora scivola una lacrima; non si ferma nei solchi scavati dal tempo. Non mi sono arresa al destino, non mi sono arresa al dolore e non mi sono arresa a me stessa. Sembrava che la gioia non fosse per me, non fosse con me; ma era dentro di me. Così, non perdendomi, non ho perso. Forse la mia immagine è ferma, riflessa in un giorno senza ritorno, ma io ancora ho camminato fiera, ho teso la mano a spine non mie e sanguinando ho curato ferite. Nulla accade per caso, nulla è senza senso, ma soprattutto nessuno è inutile zavorra d’un disegno perfetto e immenso. Se cerchi un angelo, comincia a guardarti dentro; se non l’avessi trovato nella mia anima, non l’avrei trovato mai, in nessun posto di questo mondo o di mille altri ancora. Nagaia sente in quelle parole il dolore immenso d’un intera esistenza, eppure un altrettanta immensa forza. Chiunque abbia scritto quella poesia è stato trafitto da un fato avverso e la lama di quel dolore deve essergli rimasta conficcata fin nel profondo dell’anima; non l’ha rimossa, non poteva, ma poteva continuare a respirare e far battere forte il suo cuore o arrendersi all’emorragia d’una resa. Lui o lei scelse di continuare a camminare a piedi scalzi sui vetri, ma sarebbe arrivato fin dove la vita gli avrebbe concesso. Non ha idea di quali eventi possano aver marchiato così a fuoco quell’esistenza, ne cosa ne abbia fatto del frutto della sua lotta, ma ora si sente piccola e piccoli i suoi tormenti. Forse non è stata inutile la sua avventura. Si rialza spolverandosi i vestiti, posa i foglietti sul tavolino, sfila dalle tasche anche quelli raccolti in strada e li aggiunge agli altri, affidandoli a quel vento che gli ha concesso quell’opportunità, affinché possa salvare altre anime. Forse non saprà mai di chi fossero e quale storia c’è dietro quegli scritti; forse rimarrà un mistero, ma non è più così importante porsi domande superflue, ora che conosce le risposte che più contano. Nagaia scende gli scalini e si rende conto con gradevole sorpresa che i suoi pensieri scorrono più fluidi e danzano come lucciole in un grande bosco in cui ora, però, il sentiero è illuminato. Arrivata al portone, ne esce che è già alto il sole e sullo scalino vede una vecchietta malandata sistemare poche grame cose, tutti i suoi averi, in un sacco di juta recuperato forse ai mercati, assieme agli avanzi di qualche frutto e qualche ortaggio; probabilmente il suo pranzo e forse anche la sua cena. “Buongiorno” Il saluto le viene spontaneo dal profondo, seppur non conoscesse la barbona, né avesse mai avuto premura di salutare sconosciuti. “Buongiorno a te bella figliola. Che ci facevi nel palazzo di nonna Adele? È disabitato oramai da più di tre anni; non ci abita più nessuno lì.” Rispose la vecchia sorridendole. “Nonna Adele?...La conoscevi, conosci la sua storia?...Parlami di lei…” chiese Nagaia presa dalla curiosità. “Certo che la conoscevo; qui tutti la conoscevano e conoscono la sua storia. Non sei della zona, vero?” rispose la vecchia. “No…ho camminato tutto il giorno ieri, assorta nei miei pensieri, e mi sono ritrovata dall’altra parte della città” rispose Nagaia. “Allora ti racconterò la storia di Adele. Lei viveva qui con il marito Eugenio e il suo figliolo, Davide; erano una famiglia benestante, tranquilla. Il marito amava andare a caccia, il figliolo invece amava gli animali e non gradiva la passione di suo padre. Era solo un ragazzino, dodici anni se non ricordo male; ogni volta sentivi il padre gridargli contro e dargli della “femminuccia” per il suo implorarlo di non andare, ad ogni battuta di caccia organizzata. Eh, figlia mia…alle volte il destino è crudele. Quel giorno…il giorno della disgrazia…il padre si mise in testa di “forgiare un uomo” e costrinse il figlio ad andare con lui. Era mattino presto quando svegliò dal sonno quella povera creatura…così presto che fuori era ancora buio. Se lo trascinò a forza nei boschi…la povera Adele si vide riportare un corpicino senza vita. Fu proprio il padre a colpirlo accidentalmente…ne rimase sconvolta l’intera città…non ricordi? No, forse tu eri troppo piccola, non puoi ricordare…o forse…si, non eri neppure ancora nata. Anche Eugenio ne rimase sconvolto; non fu più lo stesso uomo…beveva come una spugna, maltrattando quella povera donna che non solo non aveva nessuna colpa, ma conviveva a stento con quel dolore immenso. Pochi mesi dopo, lui, si puntò contro il fucile…quello stesso che uccise suo figlio e… si sparò. Si pensava che per la povera Adele fosse una salvezza quel gesto, ma lei non odiava il marito; sapeva che Eugenio, in fondo, adorava suo figlio. Lo amava tanto quanto lei e quella disgrazia gli lacerò l’anima forse più di quanto la lacerò a lei che lo aveva portato in grembo e donato la vita; lui gli aveva donato la morte, invece. Quando anche il marito morì, per quella poverina fu il colpo di grazia. Non voleva più vivere e la salvarono giusto in tempo, proprio un attimo prima che si gettasse dal ponte…quello lì…il “ponte dei disperati”, come lo chiama la gente del posto…” Disse la vecchia indicando proprio il punto che Nagaia voleva raggiungere la notte appena trascorsa. La donna fu attraversata da un brivido talmente forte per tutto il corpo, che quasi gli parve d’essere stata colpita da un fulmine; la pelle rabbrividì e il cuore parve salirgli in gola stringendole il respiro. “…per lungo tempo rimase chiusa in casa; non voleva mangiare, non voleva vedere nessuno. Si stava lasciando morire e…da questo era difficile salvarla” continuò la vecchia. “Poi un giorno una ragazzina bussò al suo portone e le chiese di darle qualcosa…quel che poteva. Le disse che il padre li aveva abbandonati e che sua madre era malata e non poteva lavorare per provvedere a lei e il fratellino; cercava di trovare un po’ di soldi per riuscire a mangiare un boccone di pane…povera piccola. Adele rimase molto colpita da quella sventurata…credo abbia trovato una ragione per lottare, per continuare a vivere…aiutò quella piccina e da quel giorno si dedicò sempre a tutte quelle povere creature bisognose di cure e di affetto: orfani, poverelli e andò persino negli ospedali a portare un sorriso, una favola e spesso anche una bella torta di mele…era divenuta una “boccata d’ossigeno” per quei poveri figlioli. Invecchiò senza mai risparmiarsi un solo giorno; diceva che in ognuna di quelle creature, lei, ritrovava lo sguardo del suo piccolo Davide e che questo gli dava la forza per andare avanti, nonostante tutto. Era diventata un angelo per tanti, tanti bambini; lei però diceva che l’angelo vero ce l’aveva nel cuore e tra le braccia ogni volta che abbracciava un bambino. Presero a chiamarla “nonna Adele”, prima i bambini dell’ospedale…e poi anche tutti gli altri. È morta tre anni fa…aveva novant’anni e fino al suo ultimo giorno si occupò degli altri. E questa è la sua storia figlia mia…ce ne fossero altre, tante altre, al mondo di “nonna Adele”, ma alle volte gli angeli sono tra di noi, solo che neppure loro sanno di esserci”. Nagaia aveva ascoltato tutta il racconto della vecchietta piangendo ed ora non aveva più dubbi. Una vita non si getta via, non si sciupa inutilmente. Non si vive solo per se stessi. Farne dono generoso agli altri è il modo giusto per renderla, a tutti gli effetti, il tesoro prezioso che è. Senza nulla pretendere che ti ritorni, alla fine ti avrà arricchita del valore che più conta. ©Rita Veloce “…e se vi ho emozionato, non limitatevi a cercare gli angeli, siatelo voi per primi.”
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Armida Bottini
7/23/2014 09:47:02
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