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LA PRINCIPESSA DELLA STAZIONE di Rita Veloce

3/15/2015

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"Non era nata sotto una cattiva stella e nulla faceva presagire il suo destino.
Mirta era una bambina come tante e come tante sognava cavalieri, principi e reami.
Nei suoi giochi lei era sempre regina o principessa.
La sua stanza diveniva castello fatato con paggi, fate, magie e sortilegi. 

La favola finiva sempre con il bene vittorioso."


di Rita Veloce

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Non era nata sotto una cattiva stella e nulla faceva presagire il suo destino.
Mirta era una bambina come tante e come tante sognava cavalieri, principi e reami.
Nei suoi giochi lei era sempre regina o principessa.
La sua stanza diveniva castello fatato con paggi, fate, magie e sortilegi. La favola finiva sempre con il bene vittorioso.
Passavano giorni, mesi e anni tra giochi e fantasie; cresceva nel corpo, ma la sua anima troppo sognatrice peccava molto d’ingenuità.
Un giorno, assorta nell’ennesimo sogno ad occhi aperti, mentre era affacciata alla finestra a guardare ipnotica il tramonto, scorse in lontananza una sagoma scura sul rosso sfondo che camminava sfiorando la riva, verso le case del paese.
Presto prese forma una figura giovanile estranea a quei luoghi; forse un marinaio giunto da misteriose terre o un principe naufragato da una nave colma di tesori.
Nella mente della fanciulla si sbizzarrirono le ipotesi più bizzarre e le briglie della fantasia le sfuggirono completamente dalle mani.
Mossa da una curiosità infrenabile, volle precipitarsi sulla spiaggia per vedere lo sconosciuto da vicino.
Giunta sulla calda rena, questi vedendosi dinanzi la giovinetta con uno leggero abitino fiorato carezzato dal tenue venticello e il fresco e roseo viso, le rivolse repentino la parola.
Mirta abbassò gli occhi, ma non poté evitare che le sue labbra si allungassero in un timido sorriso.
L’uomo, vezzo seppur giovane, con la stessa “arte” del pifferaio magico, riuscì a portare la ragazza verso le baracche dei pescatori, cominciando a narrarle ipotetiche sue avventure e vicissitudini. Mirta senza rendersene conto, affascinata da quei racconti a da quel tono di voce carismatico, prese a seguirlo al pari d’un fedele cagnolino.
Ma una volta giunti dietro quelle cascine e lontano da “occhi indiscreti”, in un ora in cui i pescatori avevano già preso il largo da molte ore, lì, tra il silenzio delle reti stese e vecchie barche da riparare, le mostrò un altro volto, un’altra “favola”, un’altra realtà.
Neppure nelle più terribili fiabe di malvagi stregoni, sortilegi spietati e maledizioni ancestrali, Mirta avrebbe mai potuto concepire quegli scenari.
Il giovane cambiò viso, tono di voce e le sue parole divennero letame riversatosi su di lei impietoso.
Le rubò i sogni e l’innocenza dalle rosee guance, sporcando la candida veste di crudeltà. Le rubò le favole e i lieto fine.
Quando l’uomo ebbe soddisfatto la sua cupidigia lasciò quel fragile fiore reciso, sulla rena, con i petali laceri; gli occhi persi nel vuoto oltre il mare, le labbra ancora serrate e ferite da quella mano avvolgente come una coltre di fumo nera, che soffoca grida e respiri.
Era ormai giunta la sera; le voci dei pescatori che stavano rientrando con il loro carico di pesci, cominciavano ad udirsi sempre più vicine alla riva e la ragazza trovò la forza di rialzarsi, presa dal pudore di non farsi scoprire lì in terra e fuggì più in fretta che le riuscisse.
Giunta disperata al cospetto di sua madre, le crollò sul grembo; mai si sarebbe aspettata di non trovare consolo e rifugio tra le sue braccia.
Mirta era colpevole; colpevole d’esser stata così ingenua, così sprovveduta. Colpevole d’aver provocato lei stessa le sue disgrazie.
Colpevole d’aver portato in casa il disonore e di aver condannato i fratelli alla vergogna.
Nessuna consolazione, nessuna giustizia, nessuna pietà.
La donna la recluse in un luogo lontano, freddo e anonimo che qualcuno chiamava ospedale, qualcuno casa di cura, qualcuno manicomio e qualcun altro inferno; chiusa per sempre in una spoglia stanza senza nome, senza chiave, senza dignità e senza diritto.
Sarebbe per tutti morta, se non presto dimenticata.
E dimenticata fu. Folle e disgraziata, ma di quella vergogna fu celata per sempre l’onta.
Quelle mura videro la sua ribellione, la sua rabbia, il suo dolore ed infine la sua inesorabile resa.
Mirta cominciò a disegnare, su quei muri, la sua corte, i suoi giullari, i suoi castelli fatati e divenne principessa per coloro che il pasto le allungavano.
Questo fu il suo nuovo nome; perdendone, pian piano, persino la memoria di quello vero. Quello oramai apparteneva ad una fanciulla che un giorno morì su d’una spiaggia, con il vestito a brandelli e briciole di telline vuote sulla pelle.
In quella stanza, alla fine, la “principessa” aveva trovato il suo rifugio dai mali del mondo.
Ma se mai c’è una fine alle sventure, per Mirta si fece un eccezione.
Un giorno tutto cambiò e di tutte le stanze della “reggia” si dovettero aprire le porte.
Gli spauriti inquilini dovettero lasciare quelle mura, unica casa che oramai conoscevano.
Quelli che ancora avevano una famiglia disposti ad accoglierli, furono ad essa consegnati, ma per Mirta nessuno giunse.
Gli anni erano passati inarrestabili e per la nuova generazione, lei non esisteva; non era mai esistita. Per chi l’aveva conosciuta, dimenticò che fine avesse fatto: “forse morta, sicuramente morta”.
La “principessa” si ritrovò così abbandonata nel nulla più grigio di desolate periferie con un nuovo dolore ed una nuova sconfitta.
Sul capo aveva ormai argentei riflessi, indossava indicibili vesti sporche e logore e tra le mani una sacca sfilacciata e rattoppata con pochi miserabili averi raccattati qua e là tra i rifiuti.
La vedi ancora vagare per i parchi con un tozzo di pane rappreso tra le mani contorte; la vedi dividerlo con i piccioni. La vedi in compagnia d’un cane randagio; randagio come lei e che ne divide il destino, donandole l’unico amore che conosce.
Qualcuno, tra la gente che ogni giorno passa di qua, si chiede:
“Chissà chi è o chi fosse mai stata, chissà da dove viene e dove mai andrà. Chissà qual è la sua storia, se la ricorda ora, in quali epoche la visse e se la rivive ancora”.
Ma di tutto ciò Mirta ha perso memoria ed età; forse l’unico dono che il cielo le ha fatto.
Se qualcuno si ferma a farle un sorriso, la “principessa” ricambia fugace e abbassa il viso, poi giunta la sera torna silenziosa nella sua reggia di cartone, su di una delle panchine tra i binari della stazione, e nei sogni del suo cuore ancora fanciullo, consola quel tempo che gli fu negato e che mai nessuno gli potrà mai ridare, certa che una “fata”, prima o poi, andrà ad incontrare.

© Rita Veloce

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