ITALIA DA VEDERE: CIVITA DI BAGNOREGIO (Il paese che muore) Mi piace definire l’Italia come “il Paese dei paesi”, infatti, da nord a sud, sono davvero tantissimi i piccoli borghi che offrono, o per scenari naturali o per antiche strutture, atmosfere incantate di cui deliziarsi e impronte ancora palpabili d’un tempo ormai perduto nella storia antica di questi luoghi. Una di queste meraviglie è Civita, frazione del comune di Bagnoregio, in provincia di Viterbo. Il paesello sorge, in modo quasi surreale, su di una collina di tufo, a 443 mt d’altezza, nella valle dei Calanchi. La definizioni di “paese che muore” è dovuta alle innumerevoli frane, causate dal terreno argilloso e le continue erosioni, che lo hanno portato a sgretolarsi e precipitare a fondo valle, poco per volta nel corso di secoli e millenni, e che lo legano ad un destino inesorabile: La piccola cittadina d’origine etrusca, nel quale restano poco più di una decina di anime, è destinata a scomparire. Civita è raggiungibile solo attraverso un ponte percorribile esclusivamente a piedi; alla fine di esso v’è un antica “porta d’ingresso”, detta di Santa Maria, che apre ad uno scenario dal sapore medioevale e rinascimentale e ti catapultano inevitabilmente in quel tempo ad immaginare, ad occhi aperti, scene di vita quotidiana, costumi, antichi pali, feste di borgo e mercati di piazza. La visita ai viottoli, la piazza e la chiesa, richiedono solo poche ore e vale davvero la pena percorrere il lungo ponte, per recarsi in questo luogo suggestivo, destinato a scomparire e divenire solo “reperto archeologico” della sottostante vallata. articolo e fotografie a cura di Rita Veloce
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IL 26 APRILE TRENT’ANNI DAL DISASTRO NUCLEARE DI CHERNOBYL SOLETERRE PUBBLICA I RUSULTATI DEL SONDAGGIO D’OPINIONE “GLI ITALIANI E L’ACCOGLIENZA DOPO CHERNOBYL” Da anni l’Organizzazione Umanitaria SOLETERRE-STRATEGIE DI PACE è attiva a sostegno dei bambini onco-malati con un Programma attivo in 6 Paesi tra i quali l’Ucraina, colpita 30 anni fa dal più grave incidente nucleare della storia: Il 26 aprile 1986 scoppiò il reattore della centrale nucleare di Chernobyl con gravi conseguenze sulla salute della popolazione che purtroppo continuano ancora oggi. Secondo un sondaggio realizzato da EMG Acqua per Soleterre su un campione rappresentativo della popolazione italiana, il disastro nucleare di Chernobyl è ancora molto impresso nella memoria (87%), gli italiani ritengono che l’accoglienza dei “bambini di Chernobyl” sia stata importante e positiva per la loro salute (62%), che il disastro di Chernobyl ha ancora effetti negativi sulla salute in Europa (85,4%), che si parla troppo poco degli effetti sulla salute degli incidenti nucleari (91,5%) e che è utile sostenere i paesi in cui sono successi incidenti nucleari (85,9%) «Dopo la tragedia di Chernobyl la popolazione italiana è stata molto attiva e solidale, creando la più grande rete di accoglienza al mondo dei bambini delle zone colpite dall’incidente e creando un legame molto forte finalizzato a tutelare la salute di molti bambini e famiglie – ricorda a il Presidente di Soleterre Damiano Rizzi – una solidarietà che deve continuare ancora oggi, come purtroppo continuano gli effetti negativi sulla salute dei bambini. Per questo Soleterre da anni lavora in due reparti oncologi e ha aperto una casa di accoglienza per bambini onco-malati a Kiev». Inoltre, dal 25 al 14 maggio Soleterre promuove la campagna sociale “GRANDE CONTRO IL CANCRO”, raccolta fondi a favore di oltre 8.000 bambini malati di tumore per fornire le giuste cure e innalzare i loro tassi di sopravvivenza, attraverso l’invio di un SMS solidale da 2 euro al numero 45595 con tutti gli operatori telefonici o chiamando dal telefono fisso con TIM, Vodafone, Infostrada, Fastweb, Tiscali e TWT. Ogni anno nel mondo vengono diagnosticati tra i 175 e i 250 mila nuovi casi di cancro infantile, ma non tutti i bambini hanno il diritto di curarsi a causa delle diverse condizioni dei sistemi sanitari in cui risiedono. Il 90% dei pazienti vive in Paesi poveri, dove l’accesso all’informazione e alle cure è spesso impraticabile. A causa di diagnosi tardive o inadeguate, più di un bambino malato su due è destinato a morire. Grazie ai fondi raccolti con la campagna “Grande contro il Cancro” si potranno realizzare diagnosi accurate e tempestive, fornire medicine antitumorali e attrezzature mediche, formare medici, garantire supporto psicologico, attività ludiche e case di accoglienza in Ucraina, Italia, Marocco, India, Costa d’Avorio ed Uganda. SOLETERRE è un’organizzazione umanitaria laica e indipendente che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle “terre sole”. Realizza progetti e attività a favore di soggetti in condizione di vulnerabilità in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro. Interviene con strategie di pace per favorire la risoluzione non violenta delle conflittualità e per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione attiva dei beneficiari degli interventi nei paesi di origine e in terra di migrazione e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo. www.soleterre.org SOLETERRE DENUNCIA IL DRAMMA DEI DESAPARECIDOS IN MESSICO IN OCCASIONE DELLA “GIORNATA INTERNAZIONALE PER IL DIRITTO ALLA VERITÀ SULLE GRAVI VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI E LE DIGNITÀ DELLE VITTIME” Oggi, giovedì 24 marzo, in occasione della “Giornata Internazionale per il diritto alla verità sulle Gravi Violazioni dei Diritti Umani e la Dignità delle Vittime”, l’Organizzazione Umanitaria SOLETERRE – STRATEGIE DI PACE ribadisce la propria solidarietà ai migranti centroamericani che attraversano il Messico e ai loro difensori che sostiene dal 2007 con diversi progetti. Sono circa 7 milioni le persone, per la maggior parte provenienti dal Centro America, che fuggono dalla povertà dei loro paesi e cercano di raggiungere la frontiera sud degli Stati Uniti d’America. Ogni anno si stima che almeno 400.000 migranti irregolari attraversino la frontiera tra Guatemala e Messico. In particolare, il Messico, principale paese di transito, è una delle terre più pericolose per i migranti a causa degli alti tassi di abusi e omicidi a cui sono soggetti. Qui, ogni anno, circa 20.000 i migranti vengono sequestrati per estorcere denaro alle loro famiglie: molti spariscono senza lasciare traccia, vittime di traffico e tratta di persone. Secondo il governo messicano ad oggi i “desaparecidos” risultano 27.000 e tra questi ci sono anche migranti, ma il reale numero delle persone scomparse è di gran lunga superiore, considerando che la maggior parte dei familiari non denuncia la sparizioni alle autorità. Sono queste ultime, infatti, in collusione con i cartelli del crimine organizzato, le principali responsabili della scomparsa di migliaia di cittadini messicani e di migranti: sono loro i “desaparecidos” del nuovo millennio, i “clandestini” di cui nessuno parla, ritrovati spesso nelle decine di fosse comuni sparse per tutto il territorio messicano. Le uniche testimonianze e denunce si hanno dalle organizzazioni e dalle reti che proteggono i migranti, a loro volta vittime di minacce e di violenze. «Non si può continuare ad ignorare le violazioni dei diritti umani nel mondo. L’’intera Europa, ormai chiusa in un atteggiamento egoistico di difesa e rifiuto, come ci dimostra il trattamento riservato alle persone che premono alle sue frontiere in cerca di rifugio, si disinteressa completamente del dramma dei “nuovi desaparecidos” – afferma Damiano Rizzi, presidente di Soleterre - In America Latina il numero delle persone scomparse è infatti in costante crescita, e tra loro molti sono i migranti. Siamo attivi da molti anni in Messico e Centroamerica per sostenere chi li difende e contrastare e denunciare la violenza ai loro danni. Violenza che quando non li uccide, mina in maniera profonda la loro salute fisica e psicologica, che dovrebbe invece essere un diritto garantito a tutti, come Soleterre ha ribadito nel suo “Manifesto per la salute” presentato nel mese di febbraio. Ci sembra doveroso ricordali proprio il 24 marzo, “Giornata Internazionale per il diritto alla verità sulle Gravi Violazioni dei Diritti Umani e la Dignità delle Vittime”, scelta dalle Nazioni Unite perché anniversario dell’uccisione di Mons. Romero in El Salvador, evento simbolico per ricordare i morti e i desaparecidos di Argentina, Cile, Uruguay, ecc.». SOLETERRE è un’organizzazione umanitaria laica e indipendente che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle “terre sole”. Realizza progetti e attività a favore di soggetti in condizione di vulnerabilità in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro. Interviene con strategie di pace per favorire la risoluzione non violenta delle conflittualità e per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione attiva dei beneficiari degli interventi nei paesi di origine e in terra di migrazione e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo. Soleterre lavora in Centro America dal 2007, con interventi a livello regionale sulla prevenzione della violenza giovanile e sulla giustizia riparativa, azioni a sostegno delle famiglie migranti nei Paesi di origine e in quelli di destinazione e progetti per la tutela dei difensori dei migranti. www.soleterre.org Il progetto video che lo studio Mammafotogramma ha realizzato per mare culturale urbano racconta gli spazi di mare con un linguaggio eterogeneo: tecniche apparentemente distanti si fondono per narrare le diverse anime ed esperienze che lo compongono. Il video si apre con il logo animato di mare: un cerchio imperfetto, vivo e pulsante, disegnato da Maddalena Fragnito. Il logo, trasformandosi in un mare di esperienze, parole, colori, prende la forma della città di Milano, plana su zona 7 e ci porta all'interno degli spazi. L'animazione è realizzata con una commistione di diverse tecniche di rappresentazione, dall’olio su video al render 3D di Google Earth, dalla più sofisticata ripresa con drone alla rappresentazione pitto-animata dell'edificio, fino al time-lapse del modellino. I prospetti e le sezioni del progetto prendono vita e diventano illustrazioni animate: in un continuo gioco di linguaggi che si fondono, si scontrano e si rincorrono, convivono realtà e rappresentazione, verità e finzione. SOLETERRE SOSTIENE IL PROGETTO SOCIALE “MÈRE EN LIGNE” attivo in Marocco per proteggere le ragazze madri dalla criminalizzazione anche attraverso la creazione di una WEB RADIO L’Organizzazione Umanitaria SOLETERRE – STRATEGIE DI PACE sostiene il progetto sociale nato in Marocco “Mère en Ligne”, per difendere e proteggere le madri nubili perseguibili per legge nello stato marocchino. “Mère en Ligne”, in partenariato con l’associazione marocchina “100% Mamans” di Tangeri (www.centpourcentmamans.com), vuole rafforzare l’accoglienza con assistenza medica e psicosociale alle madri nubili marocchine, l’avvio al lavoro, il supporto legale e sensibilizzare su questi temi. Il progetto offre inoltre a queste donne una nuova opportunità di riscatto sociale coinvolgendole anche nella gestione di una web radio, strumento per dare voce alle loro storie, difendere i loro diritti e aiutare altre donne che, come loro, sono state ripudiate dalla società. In Marocco, ancora oggi, la gravidanza fuori dal matrimonio rappresenta una trasgressione alla norma culturale, sociale e religiosa. Le madri nubili vengono escluse dalle loro famiglie e dal loro ambiente sociale. Non avendo un reddito, né una dimora, il 36 % di queste madri, d’età inferiore ai 25 anni, si vede obbligata ad abbandonare il proprio bambino. Classificata come Zania (prostituta), la donna nubile rimane da sola per il resto della propria vita e subisce discriminazioni anche in ambito lavorativo. Il contesto giuridico non aiuta le ragazze madri: la legge 490 del codice penale marocchino punisce ogni relazione sessuale extraconiugale con una pena che va da un mese fino ad un anno di carcere. «Quello che subiscono le donne marocchine che hanno figli fuori dal matrimonio è una vera violenza, un abuso psicologico che la cultura maschilista compie contro di loro e contro i loro bambini – afferma Damiano Rizzi, presidente di Soleterre - Impedire a una mamma di esercitare la propria funzione genitoriale, annullandone il ruolo, le reca un grave danno esistenziale costringendola in molti casi ad abbandonare il bambino nei primi anni di vita con conseguenze traumatiche sulla salute mentale sua e del bambino. Parliamo di donne già vulnerabili e che provengono da contesti sociali di deprivazione (il 70% di loro sono analfabete contro una media nazionale di analfabetismo femminile attorno al 40%). Il legame fra una mamma e il suo bambino è fondamentale in particolare nei primi 3 anni di vita laddove il cervello umano si sviluppa fino al novanta per cento della dimensione adulta e costruisce la maggior parte dei sistemi e delle strutture che saranno responsabili di tutto il futuro funzionamento emotivo, comportamentale, sociale e psicologico. Per questo il progetto di Soleterre mira a tutelare il legame emotivo tra la mamma e il bambino riconoscendo alla donna lo status di madre». SOLETERRE è un’organizzazione umanitaria laica e indipendente che opera per garantire i diritti inviolabili degli individui nelle “terre sole”. Realizza progetti e attività a favore di soggetti in condizione di vulnerabilità in ambito sanitario, psico-sociale, educativo e del lavoro. Interviene con strategie di pace per favorire la risoluzione non violenta delle conflittualità e per l’affermazione di una cultura di solidarietà. Adotta metodologie di partenariato e di co-sviluppo per promuovere la partecipazione attiva dei beneficiari degli interventi nei paesi di origine e in terra di migrazione e garantire la loro efficacia e sostenibilità nel tempo. I progetti di Soleterre hanno come obiettivo privilegiato l’area materno infantile con attività specifiche volte alla prevenzione della violenza e dello sfruttamento nei confronti delle donne finalizzati alla loro inclusione sociale. Soleterre in Italia ha contribuito alla creazione della rete Tiziana Vive, composta da 11 associazioni che lavorano ogni giorno per la promozione e la tutela dei diritti delle donne (www.tizianavive.org). www.soleterre.org Mio fratello si è fatto la galera ed è poi morto a me. Passamontagna ben visibile nel giardino in cui fu trovato. ll pm Sergio De Nicola,che arrestò Aldo Scardella innocente poi morto in una cella d’isolamento dopo sei mesi, ipotizza che i banditi sono entrati nel Mandorleto luogo che portava nelle vicinanze dove lo rinvennero, ma la strada dove scapparono i banditi portava anche in altre zone, non solo nelle mie vicinanze.
Una domanda sorge spontanea: come faceva a sapere la polizia che il pm avrebbe omesso le altre strade cioè che avrebbe assecondato in tutto e per tutto la loro ricostruzione? il giorno dopo l’omicidio la polizia trovò il passamontagna in un giardino ben visibile quando in realtà era ben occultato (così disse chi lo trovò) nell’eventualità di trovare in futuro colpevole della zona, lo fecero trovare ben visibile tre giorni dopo. Presero Aldo credo che la vittima sia morta prima del previsto ecco perché sono stati così grossolani nel fabbricare le prove..sospetti che in ogni caso sono serviti per mandarlo in galera perché tutta la società si adegua a questo sistema criminale e delirante. In seguito chi verbalizzò non è stato mai interrogato anche per le diversa testimonianza di chi trovò il cappuccio . l’unico ad non essere interrogato di tutti i poliziotti coinvolti in prima linea. Così tanto per vedere se il magistrato gli avrebbe contestato le sue dichiarazioni e l’incongruenza con l’altra testimonianza di chi trovò il copricapo. Non solo conoscono la verità originaria ma conoscono la verità originaria ma conoscono anche la verità della morte di Aldo.. erano i primi interessati a voler sapere tutto. A volte la vittima del reato muoiono per mano dello stesso autore. Ricercare le prove della sua innocenza omettendo altre strade non l’ha ricercata la paura della sua innocenza. Nel quartiere avevano realizzato, come del resto gli stessi inquirenti, che si trattava di un omicidio con la motivazione diversa della tentata rapina. Anche la stampa dopo aver verificato nel quartiere prese per buono queste impressioni. Ma nonostante tutto intitolò nel quotidiano Nuova Sardegna: con i soldi della rapina si sarebbe dovuto finanziare un traffico di eroina. Molte volte si sostiene una verità scomoda per non ammettere che sei stato complice. Vedi tutto questo fa parte di un disegno ben preciso, ognuno di questi soggetti ci guadagna qualcosa. Solo a voi non suonava questa campana e la società è contenta e ben rappresentata. Lo sapevano dell’innocenza di Aldo il quartiere Is Mirrionis luogo in cui è maturato il delitto, lo sapevano gli inquirenti: Aldo intuì che gli investigatori sapevano ed è per questo che si preoccupò. Gli inquirenti erano al corrente che doveva accadere “un rapina”.. Aldo è stato fin troppo preciso: ”me cercate?! Voi lo sapete chi è che l’ha ucciso." Gli inquirenti non potevano inserirsi in quelle indagini,troppo coinvolti e collusi. Hanno considerato all’inizio un movente diverso dalla tentata rapina ma in realtà avevano preparato da prima che accadesse il delitto una pista che indicava e ipotizzava la tentata rapina…hanno usato più o meno la stessa tecnica che utilizzarono per un famoso caso giudiziario avvenuto anni prima. Stessi attori, solo che il commissario all’inizio del caso della vittima sacrificale non era attivo per non far figurare che per due volte ha fatto lo stesso giochetto. Quando vogliono mantenere intatta la loro “ onesta” agiscono brutalmente usando tutti i mezzi in loro possesso e nessuno se ne accorge o meglio fanno finta di non vedere. Mio fratello si è fatto la galera ed è poi morto a me. Mi perseguitano per una verità che non vogliono rivelare. È testimone di più delitti la società che la criminalità organizzata. Ci sono indizi contro di loro tanto da rinviarli a giudizio. Cristiano Scardella Il piede sinistro si porta avanti.
Il piede sinistro segue il destro e le bianche mura delle case sono punto d’appoggio per la mano sinistra; una mano rugosa, rattrappita, che si aggrappa e suo malgrado offre una presa più sicura. La mano destra invece stringe la punta ricurva di un bastone di fortuna; un ramo contorto come le ossa che sostiene.
Il tempo trascorso, per scendere lo stradino, la vecchina non lo ha calcolato; forse in passato le sarebbe parso interminabile e inaccettabile sprecarne tanto per una ragione così vana, ma il tempo oramai non la spaventa più, non lotta più contro di lui, non lo odia, non lo ama, semplicemente lo ignora. Ora sa solo che si è diretta dove vuole arrivare e, adagio, senz’altro con fatica, ma vi giungerà. Svolta l’angolo flemmatica; eccolo il “giardino” che a sé l’aveva chiamata. Un piccolo “belvedere” con grandi vasi di coccio, qua e là, posati in terra o appesi sulla ringhiera. Rigonfi di verde fogliame tempestato di bottoncini colorati, offrono profumati boccioli o grandi corolle aperte al sole. I vasi appesi alle ringhiere, invece, paiono rampe di lancio per lunghi steli fioriti che svettano verso il cielo o che si tuffano in basso come cascate colorate che, carezzate dal vento, quasi emulano le onde del mare che si scorgono dal magnifico panorama che si offre generoso d’immagini, come un quadro dipinto. Uno scorcio di Paradiso, un colorato sorriso verso il cielo.
Le due donne si guardano per un attimo; l’una ha la pelle liscia come i petali delle rose nei vasi lì accanto, l’occhio vivace, le labbra carnose e capelli neri come la notte che danzano morbidi nel venticello, che soffia quasi padrone di quel terrazzo, l’altra ha gli occhi già spenti, vitrei, le labbra screpolate e risucchiate dall’assenza di denti e la sua pelle è cuoio cucito quasi a nido d’ape. Un divario generazionale profondo quanto un abisso.
Pochi secondi di risposta, un nome, Elisa, un soprannome e le curiosità della vecchina sono soddisfatte.
All’improvviso, la vecchia, comincia a intonare una cantilena. Elisa ne pare quasi infastidita, ma poi comincia ad ascoltarne le parole; è una canzone d’amore, un amore disperato, speranzoso, immenso e quasi se ne sente rapita.
Il silenzio ora è sceso lapidario, sommo. «E tuo figlio… dov’è ora, vive al paese?» È la prima domanda che osa la giovane per spezzare quel silenzio divenuto improvvisamente sconveniente, perché troppo doloroso per la poverina; ma la giovane non sa di aver aperto un ennesima piaga nel petto della vecchia.
ˊ«Come ti chiami, “nonò”?»
«Angelina…» La donna ebbe un piccolo sussulto, forse perché il suo nome era stato pronunciato in un momento di rapimento nel mondo dei suoi ricordi, o forse semplicemente perché era stato pronunciato ed era da tanto che non si sentiva più chiamare da qualcuno.
Il pensare alla vita travagliata della vecchina e alle sue discutibili scelte, le fece dimenticare la ragione del suo “esilio” in quel punto panoramico dove faceva sentire la sua voce solo il vento e lo accompagnava il suono ritmato dell’infrangersi delle onde sugli scogli sottostanti.
Lavorava troppo e non poteva mai fermarsi più d’un fine settimana; ecco perché lo capii subito che c’era qualcosa di strano quando venne con quelle due valige. “Starò con te un po’ di più questa volta…sei contenta ora?”così mi disse, ma io me lo sentivo nel cuore che c’era qualcosa che non mi voleva far sapere, qualcosa di brutto…me lo sentivo! Il racconto di Angelina ora si interrompe; non scendono lacrime dal suo viso, sembra solo che le parole si siano tutte improvvisamente prosciugate, forse per il doloroso ricordo o forse proprio per l’arsura di chi non parlava più così tanto, da molto, molto tempo. All’improvviso la donna fa forza sul bastone e si tira su, guarda la ragazza e le fa un sorriso, poi volge lo sguardo verso il cielo e dice:
Elisa ha percepito una punta di sarcasmo in quel “io aspetto”; povera donna, è davvero stanca, stanca di aspettare di poter rivedere i suoi amati, ma ha onorato sempre la vita che le è stata donata. La ragazza non ricorda davvero più quale fosse la “grave” ragione del suo dolore nell’animo quando scelse quell’angolo di paradiso per allontanarsi da tutto e da tutti, sa solo che quell’incontro inizialmente fastidioso le ha invece giovato e impresso nel cuore una lezione di vita che difficilmente dimenticherà. © Rita Veloce La Farmacia d'Epoca è un blog dedicato al collezionismo di vecchie scatole di latta di medicinali curato “Ciò accadeva dopo una serie di forti e dolorosi attacchi del mio male, ed io sempre, quando la mia malattia si faceva sempre più forte e gli attacchi si ripetevano per più volte di seguito cadevo in un totale inebetimento, perdevo completamente la memoria, e anche se la mente funzionava, era come se fosse interrotta la sequenza logica dei pensieri. Io non potevo collegare fra loro due o tre idee di seguito. Così almeno mi pare. Quando poi gli attacchi si calmavano, tornavo ad essere forte e sano come ora” Fëdor Dostoevskij - “ L’Idiota” - Mondadori “Morbo caduco”, “mal comiziale”, “morbo sacro”, sono forse gli epiteti più famosi con cui è conosciuta l’epilessia, una condizione neurologica caratterizzata da episodi di perdita di coscienza e convulsioni. Oggi siamo coscienti che questa patologia ha un background genico o metabolico, ed è trattabile farmacologicamente consentendo una buona qualità della vita nei soggetti affetti, ma nel 1867, quando Fëdor Dostoevskij stava scrivendo “L’Idiota”, l’epilessia era ancora etichettata come una manifestazione divina o peggio, come l’effetto di una possessione demoniaca. Per circa duemila anni, l’unica fonte di trattamento per gli epilettici fu l’esorcismo, l’internamento in manicomio o l’emarginazione, in quanto si riteneva che questa condizione neurologica fosse contagiosa, a cui si accompagnavano pratiche assurde volte a guarire il paziente epilettico: infatti basta aprire un qualunque manuale medico dell’Ottocento per sapere che la cura più “vantaggiosa” per trattare l’epilessia era l’applicazione di “coppette e mignatte”, ossia il salasso. Spesso chi non poteva permettersi di “tenere segreto” il suo morbo in costose cliniche private, veniva internato in manicomio, in quanto fino agli anni Settanta del secolo scorso, l’epilessia era considerata una malattia psichica e una manifestazione di pazzia, incompatibile con la vita sociale: questo infatti spiega perché la maggior parte dei farmaci impiegati negli epilettici, soprattutto nella prima metà del Novecento, ricadono tutti nella categoria degli psicofarmaci pesanti. Il fenobarbiltal, o Luminale della Bayer, prodotto anche in una versione per neonati, battezzata “Luminalette”, il Bellergil Sandoz rinforzato con tartrato di ergotamina, il Setran Cipelli a base di meprobamato, uno tra gli anticonvulsivi più noti nel passato, e molti altri sono la testimonianza di quello che è stato uno dei periodi più bui nella storia dei trattamenti contro l’epilessia. Oggi i barbiturici sono solo impiegati nei casi più gravi, preferendo ad essi le benzodiazepine, che producono meno effetti collaterali. Non tutte le case farmaceutiche però si accodarono alla moda del barbiturico, ed è da segnalare l’approccio della francese Carrion, che negli anni Cinquanta diede alla luce il Di – Hydan a base di fenitoina, una molecola che riduce l’apertura dei canali del calcio a livello cellulare, sopprimendo la scarica ripetitiva di potenziali d’azione che causa gli attacchi. Il Di – Hydan fu una svolta nel trattamento della patologia, ed è ancora considerato un valido antiepilettico. Con la legge Basaglia, e la chiusura dei manicomi, finalmente finirono i soprusi sugli epilettici, ma solo sulla carta.
Ancora oggi la vita per chi soffre di questa condizione, spesso è difficile, in quanto a causa di pregiudizi ben radicati, sopravvive la credenza che l’epilessia possa essere contagiosa, o che possa rappresentare un pericolo per le persone vicine al paziente epilettico, in quanto risulta impossibile prevedere un attacco convulsivo, facendo sì che queste persone facciano molta fatica ad inserirsi nell’ambito lavorativo ,anche con curricola di tutto rispetto. Intendiamoci: l’epilessia non è una passeggiata, ma se trattata a dovere, permette una buona qualità di vita, e non va assolutamente ad intralciare il lavoro, gli affetti, le aspirazioni, le amicizie, la possibilità di svolgere uno sport, l’avere dei figli e lo scrivere grandi libri, come il buon Fëdor Dostoevskij, epilettico anche lui, ci insegna. Di Giulia Bovone della Farmacia d’Epoca per Deliri Progressivi. "Non era nata sotto una cattiva stella e nulla faceva presagire il suo destino. Mirta era una bambina come tante e come tante sognava cavalieri, principi e reami. Nei suoi giochi lei era sempre regina o principessa. La sua stanza diveniva castello fatato con paggi, fate, magie e sortilegi. La favola finiva sempre con il bene vittorioso." di Rita Veloce Non era nata sotto una cattiva stella e nulla faceva presagire il suo destino. Mirta era una bambina come tante e come tante sognava cavalieri, principi e reami. Nei suoi giochi lei era sempre regina o principessa. La sua stanza diveniva castello fatato con paggi, fate, magie e sortilegi. La favola finiva sempre con il bene vittorioso. Passavano giorni, mesi e anni tra giochi e fantasie; cresceva nel corpo, ma la sua anima troppo sognatrice peccava molto d’ingenuità. Un giorno, assorta nell’ennesimo sogno ad occhi aperti, mentre era affacciata alla finestra a guardare ipnotica il tramonto, scorse in lontananza una sagoma scura sul rosso sfondo che camminava sfiorando la riva, verso le case del paese. Presto prese forma una figura giovanile estranea a quei luoghi; forse un marinaio giunto da misteriose terre o un principe naufragato da una nave colma di tesori. Nella mente della fanciulla si sbizzarrirono le ipotesi più bizzarre e le briglie della fantasia le sfuggirono completamente dalle mani. Mossa da una curiosità infrenabile, volle precipitarsi sulla spiaggia per vedere lo sconosciuto da vicino. Giunta sulla calda rena, questi vedendosi dinanzi la giovinetta con uno leggero abitino fiorato carezzato dal tenue venticello e il fresco e roseo viso, le rivolse repentino la parola. Mirta abbassò gli occhi, ma non poté evitare che le sue labbra si allungassero in un timido sorriso. L’uomo, vezzo seppur giovane, con la stessa “arte” del pifferaio magico, riuscì a portare la ragazza verso le baracche dei pescatori, cominciando a narrarle ipotetiche sue avventure e vicissitudini. Mirta senza rendersene conto, affascinata da quei racconti a da quel tono di voce carismatico, prese a seguirlo al pari d’un fedele cagnolino. Ma una volta giunti dietro quelle cascine e lontano da “occhi indiscreti”, in un ora in cui i pescatori avevano già preso il largo da molte ore, lì, tra il silenzio delle reti stese e vecchie barche da riparare, le mostrò un altro volto, un’altra “favola”, un’altra realtà. Neppure nelle più terribili fiabe di malvagi stregoni, sortilegi spietati e maledizioni ancestrali, Mirta avrebbe mai potuto concepire quegli scenari. Il giovane cambiò viso, tono di voce e le sue parole divennero letame riversatosi su di lei impietoso. Le rubò i sogni e l’innocenza dalle rosee guance, sporcando la candida veste di crudeltà. Le rubò le favole e i lieto fine. Quando l’uomo ebbe soddisfatto la sua cupidigia lasciò quel fragile fiore reciso, sulla rena, con i petali laceri; gli occhi persi nel vuoto oltre il mare, le labbra ancora serrate e ferite da quella mano avvolgente come una coltre di fumo nera, che soffoca grida e respiri. Era ormai giunta la sera; le voci dei pescatori che stavano rientrando con il loro carico di pesci, cominciavano ad udirsi sempre più vicine alla riva e la ragazza trovò la forza di rialzarsi, presa dal pudore di non farsi scoprire lì in terra e fuggì più in fretta che le riuscisse. Giunta disperata al cospetto di sua madre, le crollò sul grembo; mai si sarebbe aspettata di non trovare consolo e rifugio tra le sue braccia. Mirta era colpevole; colpevole d’esser stata così ingenua, così sprovveduta. Colpevole d’aver provocato lei stessa le sue disgrazie. Colpevole d’aver portato in casa il disonore e di aver condannato i fratelli alla vergogna. Nessuna consolazione, nessuna giustizia, nessuna pietà. La donna la recluse in un luogo lontano, freddo e anonimo che qualcuno chiamava ospedale, qualcuno casa di cura, qualcuno manicomio e qualcun altro inferno; chiusa per sempre in una spoglia stanza senza nome, senza chiave, senza dignità e senza diritto. Sarebbe per tutti morta, se non presto dimenticata. E dimenticata fu. Folle e disgraziata, ma di quella vergogna fu celata per sempre l’onta. Quelle mura videro la sua ribellione, la sua rabbia, il suo dolore ed infine la sua inesorabile resa. Mirta cominciò a disegnare, su quei muri, la sua corte, i suoi giullari, i suoi castelli fatati e divenne principessa per coloro che il pasto le allungavano. Questo fu il suo nuovo nome; perdendone, pian piano, persino la memoria di quello vero. Quello oramai apparteneva ad una fanciulla che un giorno morì su d’una spiaggia, con il vestito a brandelli e briciole di telline vuote sulla pelle. In quella stanza, alla fine, la “principessa” aveva trovato il suo rifugio dai mali del mondo. Ma se mai c’è una fine alle sventure, per Mirta si fece un eccezione. Un giorno tutto cambiò e di tutte le stanze della “reggia” si dovettero aprire le porte. Gli spauriti inquilini dovettero lasciare quelle mura, unica casa che oramai conoscevano. Quelli che ancora avevano una famiglia disposti ad accoglierli, furono ad essa consegnati, ma per Mirta nessuno giunse. Gli anni erano passati inarrestabili e per la nuova generazione, lei non esisteva; non era mai esistita. Per chi l’aveva conosciuta, dimenticò che fine avesse fatto: “forse morta, sicuramente morta”. La “principessa” si ritrovò così abbandonata nel nulla più grigio di desolate periferie con un nuovo dolore ed una nuova sconfitta. Sul capo aveva ormai argentei riflessi, indossava indicibili vesti sporche e logore e tra le mani una sacca sfilacciata e rattoppata con pochi miserabili averi raccattati qua e là tra i rifiuti. La vedi ancora vagare per i parchi con un tozzo di pane rappreso tra le mani contorte; la vedi dividerlo con i piccioni. La vedi in compagnia d’un cane randagio; randagio come lei e che ne divide il destino, donandole l’unico amore che conosce. Qualcuno, tra la gente che ogni giorno passa di qua, si chiede: “Chissà chi è o chi fosse mai stata, chissà da dove viene e dove mai andrà. Chissà qual è la sua storia, se la ricorda ora, in quali epoche la visse e se la rivive ancora”. Ma di tutto ciò Mirta ha perso memoria ed età; forse l’unico dono che il cielo le ha fatto. Se qualcuno si ferma a farle un sorriso, la “principessa” ricambia fugace e abbassa il viso, poi giunta la sera torna silenziosa nella sua reggia di cartone, su di una delle panchine tra i binari della stazione, e nei sogni del suo cuore ancora fanciullo, consola quel tempo che gli fu negato e che mai nessuno gli potrà mai ridare, certa che una “fata”, prima o poi, andrà ad incontrare. © Rita Veloce Quel saluto non rappresenta un’inutile perdita di tempo, ma immortala la voglia di restare attaccati con le unghie dell’anima ad antichi modelli tutt’altro che superati. Insomma, ci aiuta a riscoprire valori che sono i fondamenti di una vita sana. Gli anziani, in quanto custodi di tali principi e portatori di racconti unici, possono aiutarci a ritrovare un po’ della nostra umanità. di Simone Guaragno IL “CIAO CIAO”
“Ciao ciao”. Eccolo quel buffo saluto, eccolo buffo e usuale come gli individui che te lo propongono. Perché ripetere quel “ciao”? Perché sprecare secondi a rafforzare una parola, magari biascicandola? Incontro, spesso, persone di età avanzata che amano questo curioso arrivederci. Forse, è l’espressione di un’insicurezza profonda che emerge nel ribadire le quattro lettere perché incerti di essere stati sentiti la prima volta o, più probabilmente, è l’eco di una vita che si trascina svogliatamente con le proprie emozioni più o meno forti. Stamattina, come sempre, sono uscito per le mie consuete commissioni. Apparentemente, non si ritrova alcunché di insolito in queste vecchie stradine di paese, non si nota nulla di diverso dal noioso incedere del tempo che alcuni bontemponi (scherzando) usano chiamare “tram tram quotidiano”. Talvolta, mi sembra che la vita viaggi su un aereo a 1000 Km/h e, in altri casi, l’arrivo è lontano al punto che il mio mezzo di trasporto pare un semplice monopattino. In ogni caso, non vedo nemmeno l’ombra del fantomatico “tran tran” che indica una piatta monotonia. Al massimo, procedo a piedi. A questa velocità, riesci ancora a distinguere i cambiamenti che ti circondano. Anzi, ti accorgi che la bassa andatura non ti evita la rivoluzione attorno. A piccoli passi, incontro un anziano signore che mi chiede pochi spiccioli per comprarsi un caffè, la bevanda che non dovrebbe mancare nella colazione di ogni italiano. Molte persone affermano che è un po’ fuori di testa, ma lui racconta che sono la maggioranza degli individui a non capire come si vive realmente. Questo tizio mi ricorda quando frequentavo la scuola superiore e, ogni mattina, incontravo un altro anziano signore che chiedeva l’orario a chiunque. Anch’egli veniva deriso e anche di lui dicevano che aveva problemi cerebrali. In realtà, non mi è mai importato sapere se fosse o meno malato; l’unica certezza è che lo trovarono morto in assoluta solitudine. Qualche metro più in là, sempre accompagnato dall’improponibile e fidata bicicletta, mi saluta il custode della scuola media. Dove andrà ogni mattina in tutta fretta? È curioso vederlo girare spesso per il paese, quando la sua mansione è quella di sorvegliante dell’Istituto Statale. Mi faccio troppe domande su attività di cui non mi intendo. Sicuramente, ci sarà un motivo se percorre le strade in lungo e in largo. Sì, ci sarà una ragione o almeno spero. Fin quando lo vedo passare, provo un senso di serenità; forse, mi rendo conto che il tempo non è sempre quel tiranno riconosciuto. Come non ricordare la “vedova”? Proprio lei, la vecchia giornalaia ormai in pensione, così soprannominata per aver perso il marito prematuramente. La ritrovi a passeggiare per il corso e mi scorre davanti ogni momento della giovinezza. Tornano in mente quei tempi in cui gli edicolanti erano soltanto due o forse uno per ogni paese. Vendevano non soltanto ottimi giornali ma anche gustose caramelle che compravo ogni giorno, soprattutto la domenica dopo la messa. Erano tutt’altro che freddi negozianti, anzi erano amici fidati. Adesso, da molti anni, il piccolo locale della vedova non c’è più e i quotidiani si vendono in ogni tipo di esercizio, dal bar alle cartolerie ai centri commerciali. Le edicole stanno sparendo per essere sostituite da lunghi scaffali anonimi. I commercianti ci propinano una miriade di notizie e molto spesso “carta straccia”, come dicono i più critici. Non so nemmeno chi sia il mio giornalaio e non ricordo la sua fisionomia. Inoltre, chissà perché, ho smesso di mangiare caramelle. Forse, potrei occupare il mio tempo guardando un film. Al cinema? Magari mi vedo un DVD. Sì, abbiamo il cinema a 6 km dal mio paese. È meraviglioso credetemi con le sue 12 sale e il suo impianto dolby surround. Come una volta, c’è il banchetto che vende pop corn; anzi, mi meraviglio che non abbiano inventato la macchina che li distribuisce automaticamente. O forse esiste? Meglio non suggerire. Unico neo sono i prezzi “altini”, però non c’è da lamentarsi perché abbiamo ogni tipo di comodità. Eppure, mi manca il vecchio cine del mio paese, quello che hanno abbattuto molti anni fa per costruire negozi e case. Avevo 14 anni quando, per poche Lire, sono riuscito a vedere le nuove uscite dei film. È un vantaggio non indifferente per chi non può muoversi con l’auto. Tra l’altro, ricordo le lotte per conquistare qualche posto in quell’unica sala. In effetti, è una situazione molto scomoda, ma la soddisfazione di riuscire a vedere le proiezioni non ha eguali rispetto ad oggi. Generalmente, prima di tornare a casa, osservo le mie scarpe nuove e il mio pensiero si rivolge al locale sgangherato dell’ex calzolaio. L’ultimo di una generazione in cui era scandaloso comprare un nuovo paio di calzature perché si potevano sfruttare le vecchie con qualche piccolo accorgimento a basso costo. Ricordo quanto fosse chiacchierone e amasse il proprio lavoro, spiegando i segreti del mestiere a noi ragazzi con estrema precisione. Pare lo facesse con l’obiettivo di procurarsi clienti o, come amo credere, parlava tanto perché la giornata trascorreva prima in questo modo. Ancora oggi, mio padre lo riporta alla memoria, esclamando: “Ah, se ci fosse Giovanni, non dovremmo comprare scarpe nuove!”. Il ciabattino è parte di un mondo che, lentamente, sta sparendo. Un cambiamento che sta trascinando via con sé preziosi ricordi della vita dai sapori genuini. Soltanto dopo queste camminate comprendo, davvero, il “ciao ciao”. Intuisco che abbiamo bisogno, oggi più di ieri, di emozioni sincere. Quel saluto non rappresenta un’inutile perdita di tempo, ma immortala la voglia di restare attaccati con le unghie dell’anima ad antichi modelli tutt’altro che superati. Insomma, ci aiuta a riscoprire valori che sono i fondamenti di una vita sana. Gli anziani, in quanto custodi di tali principi e portatori di racconti unici, possono aiutarci a ritrovare un po’ della nostra umanità. Da oggi, anch’io ho deciso di salutare con “ciao ciao”. Simone Guaragno |
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Marzo 2020
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