Quel saluto non rappresenta un’inutile perdita di tempo, ma immortala la voglia di restare attaccati con le unghie dell’anima ad antichi modelli tutt’altro che superati. Insomma, ci aiuta a riscoprire valori che sono i fondamenti di una vita sana. Gli anziani, in quanto custodi di tali principi e portatori di racconti unici, possono aiutarci a ritrovare un po’ della nostra umanità. di Simone Guaragno IL “CIAO CIAO”
“Ciao ciao”. Eccolo quel buffo saluto, eccolo buffo e usuale come gli individui che te lo propongono. Perché ripetere quel “ciao”? Perché sprecare secondi a rafforzare una parola, magari biascicandola? Incontro, spesso, persone di età avanzata che amano questo curioso arrivederci. Forse, è l’espressione di un’insicurezza profonda che emerge nel ribadire le quattro lettere perché incerti di essere stati sentiti la prima volta o, più probabilmente, è l’eco di una vita che si trascina svogliatamente con le proprie emozioni più o meno forti. Stamattina, come sempre, sono uscito per le mie consuete commissioni. Apparentemente, non si ritrova alcunché di insolito in queste vecchie stradine di paese, non si nota nulla di diverso dal noioso incedere del tempo che alcuni bontemponi (scherzando) usano chiamare “tram tram quotidiano”. Talvolta, mi sembra che la vita viaggi su un aereo a 1000 Km/h e, in altri casi, l’arrivo è lontano al punto che il mio mezzo di trasporto pare un semplice monopattino. In ogni caso, non vedo nemmeno l’ombra del fantomatico “tran tran” che indica una piatta monotonia. Al massimo, procedo a piedi. A questa velocità, riesci ancora a distinguere i cambiamenti che ti circondano. Anzi, ti accorgi che la bassa andatura non ti evita la rivoluzione attorno. A piccoli passi, incontro un anziano signore che mi chiede pochi spiccioli per comprarsi un caffè, la bevanda che non dovrebbe mancare nella colazione di ogni italiano. Molte persone affermano che è un po’ fuori di testa, ma lui racconta che sono la maggioranza degli individui a non capire come si vive realmente. Questo tizio mi ricorda quando frequentavo la scuola superiore e, ogni mattina, incontravo un altro anziano signore che chiedeva l’orario a chiunque. Anch’egli veniva deriso e anche di lui dicevano che aveva problemi cerebrali. In realtà, non mi è mai importato sapere se fosse o meno malato; l’unica certezza è che lo trovarono morto in assoluta solitudine. Qualche metro più in là, sempre accompagnato dall’improponibile e fidata bicicletta, mi saluta il custode della scuola media. Dove andrà ogni mattina in tutta fretta? È curioso vederlo girare spesso per il paese, quando la sua mansione è quella di sorvegliante dell’Istituto Statale. Mi faccio troppe domande su attività di cui non mi intendo. Sicuramente, ci sarà un motivo se percorre le strade in lungo e in largo. Sì, ci sarà una ragione o almeno spero. Fin quando lo vedo passare, provo un senso di serenità; forse, mi rendo conto che il tempo non è sempre quel tiranno riconosciuto. Come non ricordare la “vedova”? Proprio lei, la vecchia giornalaia ormai in pensione, così soprannominata per aver perso il marito prematuramente. La ritrovi a passeggiare per il corso e mi scorre davanti ogni momento della giovinezza. Tornano in mente quei tempi in cui gli edicolanti erano soltanto due o forse uno per ogni paese. Vendevano non soltanto ottimi giornali ma anche gustose caramelle che compravo ogni giorno, soprattutto la domenica dopo la messa. Erano tutt’altro che freddi negozianti, anzi erano amici fidati. Adesso, da molti anni, il piccolo locale della vedova non c’è più e i quotidiani si vendono in ogni tipo di esercizio, dal bar alle cartolerie ai centri commerciali. Le edicole stanno sparendo per essere sostituite da lunghi scaffali anonimi. I commercianti ci propinano una miriade di notizie e molto spesso “carta straccia”, come dicono i più critici. Non so nemmeno chi sia il mio giornalaio e non ricordo la sua fisionomia. Inoltre, chissà perché, ho smesso di mangiare caramelle. Forse, potrei occupare il mio tempo guardando un film. Al cinema? Magari mi vedo un DVD. Sì, abbiamo il cinema a 6 km dal mio paese. È meraviglioso credetemi con le sue 12 sale e il suo impianto dolby surround. Come una volta, c’è il banchetto che vende pop corn; anzi, mi meraviglio che non abbiano inventato la macchina che li distribuisce automaticamente. O forse esiste? Meglio non suggerire. Unico neo sono i prezzi “altini”, però non c’è da lamentarsi perché abbiamo ogni tipo di comodità. Eppure, mi manca il vecchio cine del mio paese, quello che hanno abbattuto molti anni fa per costruire negozi e case. Avevo 14 anni quando, per poche Lire, sono riuscito a vedere le nuove uscite dei film. È un vantaggio non indifferente per chi non può muoversi con l’auto. Tra l’altro, ricordo le lotte per conquistare qualche posto in quell’unica sala. In effetti, è una situazione molto scomoda, ma la soddisfazione di riuscire a vedere le proiezioni non ha eguali rispetto ad oggi. Generalmente, prima di tornare a casa, osservo le mie scarpe nuove e il mio pensiero si rivolge al locale sgangherato dell’ex calzolaio. L’ultimo di una generazione in cui era scandaloso comprare un nuovo paio di calzature perché si potevano sfruttare le vecchie con qualche piccolo accorgimento a basso costo. Ricordo quanto fosse chiacchierone e amasse il proprio lavoro, spiegando i segreti del mestiere a noi ragazzi con estrema precisione. Pare lo facesse con l’obiettivo di procurarsi clienti o, come amo credere, parlava tanto perché la giornata trascorreva prima in questo modo. Ancora oggi, mio padre lo riporta alla memoria, esclamando: “Ah, se ci fosse Giovanni, non dovremmo comprare scarpe nuove!”. Il ciabattino è parte di un mondo che, lentamente, sta sparendo. Un cambiamento che sta trascinando via con sé preziosi ricordi della vita dai sapori genuini. Soltanto dopo queste camminate comprendo, davvero, il “ciao ciao”. Intuisco che abbiamo bisogno, oggi più di ieri, di emozioni sincere. Quel saluto non rappresenta un’inutile perdita di tempo, ma immortala la voglia di restare attaccati con le unghie dell’anima ad antichi modelli tutt’altro che superati. Insomma, ci aiuta a riscoprire valori che sono i fondamenti di una vita sana. Gli anziani, in quanto custodi di tali principi e portatori di racconti unici, possono aiutarci a ritrovare un po’ della nostra umanità. Da oggi, anch’io ho deciso di salutare con “ciao ciao”. Simone Guaragno
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(*) presa dalla rete Simone Guaragno: diplomato ragioniere programmatore e scrittore dall’età di 14 anni; oggi è poeta, aforista, romanziere e saggista. “Emozione”. Vi siete mai chiesti qual è il significato di questa parola tanto usata e, forse, abusata? Ebbene “emozione” viene dal latino e, come un po’ si intuisce, simboleggia l’atto del “muovere” o, meglio ancora, smuovere. Insomma, lo scuotere profondamente qualcosa che proviene da dentro per portarla fuori. Il termine indica, dunque, di mostrare l’agitazione del nostro intimo in tutta la sua forza. Qual è il senso di negarci la libertà di “muovere” le emozioni per donarle e, invece, le teniamo dentro? Può un gabbiano non usare le ali? Si è mai visto un pesce che nuota senza pinne? La natura ha creato i fiori rimproverandoli se sbocciano? Stiamo contravvenendo al senso originario della parola per ingabbiare uno dei regali più grandi che abbiamo dalla nascita: “Emozionarci”. L’essere umano dovrebbe impegnarsi a salvaguardare il patrimonio del suo spirito perché è la natura che gliel’ha offerto ed è un elemento vitale che lo caratterizza. Qualche giorno fa, camminando per strada, mi sono soffermato a osservare le persone: una giovane mamma, da lontano, guarda amorevole il suo piccolo bimbo che compie i primi passi nella vita; una ragazzina che corre con il volto rigato da poche lacrime perché la prima delusione d’amore le ha prosciugato il cuore; un uomo d’affari sgrida, con atteggiamento superiore, la segretaria che aveva fotocopiato un documento sbagliato. Eccoli lì, infine, quel gruppo di gente col volto imperturbabile di cui non riesco a leggere le emozioni, questi esseri che hanno deciso di murare il loro cuore impacchettandolo con una balla di polistirolo formato gigante. Quanto è scomodo rompere quei piccoli pallini, apparentemente, tanto fragili eppure tanto resistenti. Sembra di scavare nei loro cuori strappando l’involucro bianco come facevo da piccolino per scartare un bel regalino elettronico imballato per non romperlo. Tento di grattare per tirar via il rumoroso contenitore bloccato da migliaia di strati espansi invalicabili. Niente da fare! Esisteranno sempre esseri umani che hanno perso, a lungo, l’energia per smuovere quei sentimenti. In altri, invece, non vedo paura di piangere o ridere. Vi è un’ampia massa di emozioni d’ogni tipo, il simbolo di un animo, davvero, senza catene. È così che torna in me la speranza di distruggere le piccole palline bianche per toccare finalmente le zone più profonde di ognuno…finalmente sarà libero il cuore di polistirolo. Simone Guaragno |
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