La notte era particolarmente buia tra quelle strade; i passi della donna echeggiavano in un aria che odorava di nulla. Scarpe nere, con un tacco discretamente alto; il passo era lento, ma non incerto. La via imboccata costeggiava il fiume e presto sarebbe giunta sul “ponte dei disperati”. Sull’asfalto c’erano ancora tracce di un piovasco improvviso, sceso nel tardo pomeriggio. Su di una pozzanghera si rifletteva un debole scorcio di luna; un flebile bagliore che cercava di farsi largo tra le nubi dense che ingoiavano le stelle. A filo d’acqua c’era un bigliettino bianco, che pareva essersi appena posato. La donna fermò le punte delle scarpe proprio dinanzi ad esso, quasi le importasse qualcosa del destino di quel pezzo di carta ripudiato da chissà chi. Si chinò e lo raccolse delicatamente, come fosse una reliquia del fato, ma senza spiegarsene la ragione, visto che dentro di sé sentiva una lama gelida di apatia attraversarle l’animo da parte a parte. Le sue mani sembravano decidere da sé e tenevano ben stretto tra le dita quel misterioso pezzo di carta. Le unghia risaltavano su quel biancore; erano ben curate e mostravano uno smalto rosso scuro, ancora perfetto. Gli occhi, incuriositi, sfidarono la penombra e cominciarono a leggere le parole scritte: “Ti sei mai chiesto se esistono gli angeli? Io ogni notte guardo il cielo aspettandoli. Hai mai alzato gli occhi al cielo?”. «Sembra il pensiero di un allucinato, un alienato; cosa vorrà mai dire? Forse nulla e, comunque, non è riferito a me». Il pensiero della donna quasi si udiva in quel silenzio irreale, ma proprio mentre concepiva di restituire alla pozzanghera quel foglietto, ecco che qualcosa le sfiora i capelli; un secondo pezzo di carta le scivola sulla spalla, per poi ricaderle ai piedi, nello stesso punto della pozza d’acqua dove aveva raccolto l’altro. Non soffiava un alito di vento, quindi, pensò, è senz’altro qualche burlone che non ha nulla di meglio da fare che lanciare pezzi di carta da una di queste finestre. Alzò lo sguardo verso le vecchie palazzine di quella strada, ma non vi scorse nulla che le potesse suggerire da dove venissero con esattezza, né anima viva affacciata o che solo si scorgesse dietro i vetri. Tuttavia raccolse anche questo biglietto e lo lesse: “Ci sono luci anche nell’oscurità; sono fiaccole spente che null’altro ambiscono se non di poter essere accese per donarsi a te splendenti”. Ma che…? Fiaccole spente…non vedo fiaccole… Pensò la donna tra sé e sé. Lasciò scivolare dai palmi aperti e tornati vuoti, quei foglietti insignificanti e riprese, lento, il passo; ma non ebbe a farli più di tre o quattro che un lieve alito di vento le sfiorò un viso ormai secco di lacrime e un terzo coriandolo di carta gli svolazzò dinanzi come una farfalla sperduta. Aveva snobbato la pozzanghera e pareva deciso a danzargli proprio attorno, svolazzando irregolare. Nagaia (il nome della donna) lo afferrò al volo, sentendosene quasi sfidata. Questa volta lo stese in fretta, leggendolo con voracità, per quanto, da subito, le si mostrasse più lungo: “Ti sei mai chiesto se esistono gli angeli? Io ogni notte guardo il cielo aspettandoli. Hai mai alzato gli occhi al cielo? Ci sono cieli anche nelle pozzanghere. Hai mai visto la luce degli angeli? In ogni notte buia, io l’attendo. Hai mai aperto gli occhi alla luce? Ci sono luci anche nell’oscurità; sono fiaccole spente che null’altro ambiscono se non di poter essere accese per donarsi a te splendenti…” Ma è una poesia…erano pezzi di una poesia…ma di chi? Una poesia piovuta dal cielo… Pronunciò, questa volta sussurrando con un fil di voce, e rialzando lo sguardo verso tutto ciò che la circondava. I muri dei palazzi avevano un aria omertosa e tutte le finestre che scorgeva sembravano ben chiuse e mute, abbandonate a sonni profondi. Tutte, tranne… La scorgeva solo ora; era la finestra d’una mansarda…buia, ma aperta. Nagaia sofferma lo sguardo verso quell’apertura scura sperando di scorgere una mano sporgersi per lanciare un ennesimo pezzo di carta, una frase, una poesia; quelle strane poesie piovute dal cielo d’una notte senza luna, in una vita che oramai non sperava più di riscoprire interessi, emozioni. Nulla. Nessun movimento, neppure una piccola lucina rossa, sfavillio di sigaretta; ma la donna, ora, era decisa a svelare il mistero e non si sarebbe allontanata da quel posto senza prima capire. Cominciò così a guardarsi attorno, puntando lo sguardo sull’asfalto, in ogni angolo di quella strada, nel tentativo di scorgere altri foglietti, altre frasi che terminassero quella poesia o parole che potessero svelarle indizi utili a comprendere lo scopo o il mittente di quelle strane “missive”. “Eccone un altro…” sussurrò con un sussulto quasi gioioso e mentre si cingeva a raccoglierlo, un ennesimo fogliettino scese dolcemente dall’alto per planare poco distante da lei. Nagaia alzò subito lo sguardo verso quell’unica finestra aperta. Nessuna ombra umana si plasmò su quel misero davanzale; quei fogliettini sembravano davvero scesi dal nulla, o dal cielo scuro di quella notte misteriosa. «Ehilà...» pronunciò timidamente la donna, confidando ben poco in un cenno di risposta al suo richiamo. Infatti il silenzio continuò sovrano e la sua voce non ebbe neppure un eco di ritorno. Tutto taceva; quasi sembrava che nessun’anima abitasse quella grigia palazzina. Nagaia aprì il primo di quegli ultimi due pezzi di carta recuperati: “Se guardi oltre il tuo dolore potrai vedere la mia anima e la tua cercarsi, per illuminare insieme la notte. Perché vuoi camminare da sola verso il nulla? Non abitano lì gli angeli e non v’è luce nella resa”. Le dita affusolate della donna cominciarono a tremare; questa volta quelle parole sembravano scritte per lei. Temeva di tornare a credere in qualcosa, in qualcuno, di ricominciare a sperare. Era stato tutto troppo doloroso fino ad allora; emozionarsi di nuovo, riaprire le porte del suo cuore, lasciare la sua anima nuovamente libera di sognare, la terrorizzava. “No…” pensò tra sé e sé “è solo la mia debolezza che cerca scuse per desistere dalla decisione presa…devo riprendere il controllo di me”. L’altro foglietto rimaneva serrato nel suo pugno, tra la curiosità di leggere anche quelle parole e il timore del loro senso così incredibilmente calzante. Intanto le nubi lasciarono libera la luna che cominciò a splendere fiera come ogni notte serena, ma senza lasciare intravedere un cielo completamente terso e stellato. La luce della luna non può non toccare gli animi più sensibili e diviene più difficile ripudiare la vita. “Quante volte sono caduta e mi sono rialzata? Quante volte ho voluto dare ancora una possibilità a me stessa e al destino? E cosa ho ottenuto? Altro dolore, altre lacrime, altre rovinose cadute. Cosa mi prende ora? Perché il mio passo si è fermato in questa anonima strada, perché non restituisco alla fanghiglia di quella pozzanghera questi inutili pezzetti di carta e proseguo verso il ponte?” Nagaia interrogava la sua anima, ma la risposta era già nel suo cuore. “La vita è un dono meraviglioso, perché gettarlo via? Da qualche parte ci sarà di certo chi potrebbe avere bisogno di me; forse dovrei dimenticare i miei desideri, i miei sogni, le mie aspettative e dedicarmi a chi è solo come me, aiutare chi si è perduto, come me…forse mi ritroverei anch’io…forse dovrei darmi un ultima possibilità…forse…” E mentre la donna si tormentava nei dubbi, il palmo della mano si aprì e lo sguardo subito prese a frugare tra quei nuovi righi scritti: “Colui che insegue la morte non è mai stato vivo, poiché solo chi ha davvero vissuto sa di quali meraviglie si priverebbe arrendendosi ad essa; meraviglie che valgono mille volte di più dell’obolo che paghi”. Nagaia crolla sulle ginocchia, lì sull’asfalto ancora bagnato e copiose lacrime liberatorie s’uniscono all’acqua piovana, mentre un vento dolce, ma deciso, sfiorandole i capelli pare sussurrarle: “Presto spazzerò via tutte le nubi e rivedrai il sereno”. Non sa bene quanto tempo sia passato da quando ha raccolto quel primo foglietto, sa solo che sta oramai albeggiando. Nagaia si rialza, infila tutti quei pezzi di carta nella tasca del vestito, seppur un po’ bagnati e sporchi, passa le mani sulle ginocchia cercando di ripulirsi dall’umida polvere dell’asfalto, un ultimo sguardo a quella finestra e poi tutt’intorno al palazzo, per capire a quale entrata appartenesse quel piano. Non sapeva ancora bene cosa avrebbe fatto, ma sapeva con certezza che non sarebbe andata via senza fare qualcosa, anche solo un tentativo. Se era quella finestra la porta del cielo dalla quale le poesie volavano giù, un nome sul campanello del portone ci sarà stato di sicuro, anche se, non sapeva ancora a cosa le sarebbe servito. Sarebbe stato solo un nome; null’altro le avrebbe svelato e…cosa avrebbe dovuto fare dopo, suonare e chiedere candidamente : “mi scusi, è lei che lancia poesie dalla finestra?”; certamente no. Ma, allora, cosa? Ci avrebbe pensato dopo…ora voleva leggere quel nome e l’entrata probabile era una soltanto, così si avvicinò a quel vecchio portone scrostato di vernici, di legno ormai vecchio e malconcio. Niente, nessun campanello, nessun nome, neppure scritto con un pennarello in qualche angolo. Lo aveva esaminato tutto con estrema attenzione. Nulla. Tuttavia…il portone era semichiuso. Nagaia posò esitando, la mano su d’un anta e, delicatamente, cominciò a spingere per aprirlo almeno quanto bastasse per dare una sbirciatina al suo interno. Nell’atrio si scorgeva una lampadina penzoloni e rotta; per terra ancora i vetri. Tutto denunciava una situazione d’abbandono, di luogo disabitato; eppure qualcuno, lì sopra, nella mansarda, doveva esserci, pensò la donna. Intanto un raggio di sole entrò, dividendosi in più sfaccettature, da ogni finestra o fessura di muro fatiscente, illuminando la scalinata quasi come fosse un invito a salire. La donna non ebbe un solo attimo di esitazione e, concedendo uno sguardo attento alla gradinata avanti e a quella lasciata dietro di sé, con calma salì tutti e tre i piani, fino a ritrovarsi a quattro gradini verso la mansarda.. Si soffermò a riprendere fiato e fissò a lungo quell’uscio solo lievemente aperto; doveva salire quegli ultimi gradini e bussare, gli serviva solo riprendere fiato, ma lo avrebbe fatto. Intanto passarono, inconsapevoli, diversi minuti, durante i quali pensieri e congetture si contorsero in danze orientali nella sua mente, come sinuose ballerine. All’improvviso salì fulminea quel breve lasso di spazio che la divideva dall’avere finalmente tutte le risposte alle domande fattesi fino a quell’istante; perché indugiare oltre? La mano si posò sull’uscio a palmo aperto, poi si richiuse a pugno e bussò, dapprima delicatamente e dopo qualche istante di sconfortante silenzio, più energicamente. Nulla; nessuna risposta. Nagaia allora riaprì il palmo e lo spinse adagio, con discrezione, contro l’uscio. La porta si aprì duramente e cigolando, come se nessuno l’aprisse più da tanto, tanto tempo. Non entrò subito; si fermò ad osservare l’ambiente interno, da parte a parte, in ogni suo angolo visibile. Le finestre erano più di una; senza telaiatura e vetri, o con vetri rotti. Il tetto era fatto con travi e in molti punti si scorgevano grosse fessure; nulla di meno improbabile che qualche uccello migratore abbia lasciato lì il suo nido per poi tornarvi in tempi più miti. Non c’erano mobili, neppure accatastati in un angolo come si potrebbe far d’uso in una soffitta. Nulla, fatta eccezione per un tavolino, posizionato al centro, e una sedia, con una gamba rotta, che restava dritta poco più là. Sul tavolino non c’era nulla, tranne una vecchia penna. In terra, invece, c’erano tanti fogli, pagine di quaderni e pezzetti vari di carta ingiallita. Alcuni di loro danzavano tra soffitto e pavimento, sospinti dalla corrente d’aria che si creava da finestra a finestra. La donna varcò la soglia giusto in tempo per vedere uno di quei fogliettini volar fuori dalla finestra. Era quella la risposta alle sue domande? Solo uno scherzo del vento in una soffitta abbandonata? Tutto lì il grande mistero che così tanto l’aveva stuzzicata, fino a rivoluzionargli ogni altro intento? Una sensazione di sconfitta le fluì nelle vene e un senso di totale sconforto la piegò nuovamente sulle ginocchia. Di nuovo beffata dal destino; di nuovo illusa, tradita nei sogni, nelle speranze? Nagaia rimase immobile con lo sguardo verso il nulla e soltanto “nulla” sembrava tutto ciò in cui si era imbattuta quella notte. Nessun uomo, nessuna donna, nessun angelo…non c’era neppure un gatto randagio in quella mansarda. Le mani si misero a sfiorare quei foglietti riversati sul pavimento e nuovamente, come rispondendo ad una loro indipendente volontà, ne afferrano un mucchietto. Lo sguardo sembra essere più testardo delle volontà arresa di Nagaia, come pure ogni altra parte di sé, e comincia nuovamente a rovistare famelico tra quegli scritti. Altre poesie, altre frasi e forse racconti. Tra le tante, una colpì l’animo di Nagaia, seppur non la capisse a fondo; la sentiva dentro, specchio delle sue sofferenze: A volte mi guardo allo specchio e non vedo nulla, nessun riflesso che mi somigli, nessuna immagine se non quella di ciò che mi circonda. Eppure esisto e il mio cuore batte; il mio petto ancora si emoziona. Sulle mie gote ancora scivola una lacrima; non si ferma nei solchi scavati dal tempo. Non mi sono arresa al destino, non mi sono arresa al dolore e non mi sono arresa a me stessa. Sembrava che la gioia non fosse per me, non fosse con me; ma era dentro di me. Così, non perdendomi, non ho perso. Forse la mia immagine è ferma, riflessa in un giorno senza ritorno, ma io ancora ho camminato fiera, ho teso la mano a spine non mie e sanguinando ho curato ferite. Nulla accade per caso, nulla è senza senso, ma soprattutto nessuno è inutile zavorra d’un disegno perfetto e immenso. Se cerchi un angelo, comincia a guardarti dentro; se non l’avessi trovato nella mia anima, non l’avrei trovato mai, in nessun posto di questo mondo o di mille altri ancora. Nagaia sente in quelle parole il dolore immenso d’un intera esistenza, eppure un altrettanta immensa forza. Chiunque abbia scritto quella poesia è stato trafitto da un fato avverso e la lama di quel dolore deve essergli rimasta conficcata fin nel profondo dell’anima; non l’ha rimossa, non poteva, ma poteva continuare a respirare e far battere forte il suo cuore o arrendersi all’emorragia d’una resa. Lui o lei scelse di continuare a camminare a piedi scalzi sui vetri, ma sarebbe arrivato fin dove la vita gli avrebbe concesso. Non ha idea di quali eventi possano aver marchiato così a fuoco quell’esistenza, ne cosa ne abbia fatto del frutto della sua lotta, ma ora si sente piccola e piccoli i suoi tormenti. Forse non è stata inutile la sua avventura. Si rialza spolverandosi i vestiti, posa i foglietti sul tavolino, sfila dalle tasche anche quelli raccolti in strada e li aggiunge agli altri, affidandoli a quel vento che gli ha concesso quell’opportunità, affinché possa salvare altre anime. Forse non saprà mai di chi fossero e quale storia c’è dietro quegli scritti; forse rimarrà un mistero, ma non è più così importante porsi domande superflue, ora che conosce le risposte che più contano. Nagaia scende gli scalini e si rende conto con gradevole sorpresa che i suoi pensieri scorrono più fluidi e danzano come lucciole in un grande bosco in cui ora, però, il sentiero è illuminato. Arrivata al portone, ne esce che è già alto il sole e sullo scalino vede una vecchietta malandata sistemare poche grame cose, tutti i suoi averi, in un sacco di juta recuperato forse ai mercati, assieme agli avanzi di qualche frutto e qualche ortaggio; probabilmente il suo pranzo e forse anche la sua cena. “Buongiorno” Il saluto le viene spontaneo dal profondo, seppur non conoscesse la barbona, né avesse mai avuto premura di salutare sconosciuti. “Buongiorno a te bella figliola. Che ci facevi nel palazzo di nonna Adele? È disabitato oramai da più di tre anni; non ci abita più nessuno lì.” Rispose la vecchia sorridendole. “Nonna Adele?...La conoscevi, conosci la sua storia?...Parlami di lei…” chiese Nagaia presa dalla curiosità. “Certo che la conoscevo; qui tutti la conoscevano e conoscono la sua storia. Non sei della zona, vero?” rispose la vecchia. “No…ho camminato tutto il giorno ieri, assorta nei miei pensieri, e mi sono ritrovata dall’altra parte della città” rispose Nagaia. “Allora ti racconterò la storia di Adele. Lei viveva qui con il marito Eugenio e il suo figliolo, Davide; erano una famiglia benestante, tranquilla. Il marito amava andare a caccia, il figliolo invece amava gli animali e non gradiva la passione di suo padre. Era solo un ragazzino, dodici anni se non ricordo male; ogni volta sentivi il padre gridargli contro e dargli della “femminuccia” per il suo implorarlo di non andare, ad ogni battuta di caccia organizzata. Eh, figlia mia…alle volte il destino è crudele. Quel giorno…il giorno della disgrazia…il padre si mise in testa di “forgiare un uomo” e costrinse il figlio ad andare con lui. Era mattino presto quando svegliò dal sonno quella povera creatura…così presto che fuori era ancora buio. Se lo trascinò a forza nei boschi…la povera Adele si vide riportare un corpicino senza vita. Fu proprio il padre a colpirlo accidentalmente…ne rimase sconvolta l’intera città…non ricordi? No, forse tu eri troppo piccola, non puoi ricordare…o forse…si, non eri neppure ancora nata. Anche Eugenio ne rimase sconvolto; non fu più lo stesso uomo…beveva come una spugna, maltrattando quella povera donna che non solo non aveva nessuna colpa, ma conviveva a stento con quel dolore immenso. Pochi mesi dopo, lui, si puntò contro il fucile…quello stesso che uccise suo figlio e… si sparò. Si pensava che per la povera Adele fosse una salvezza quel gesto, ma lei non odiava il marito; sapeva che Eugenio, in fondo, adorava suo figlio. Lo amava tanto quanto lei e quella disgrazia gli lacerò l’anima forse più di quanto la lacerò a lei che lo aveva portato in grembo e donato la vita; lui gli aveva donato la morte, invece. Quando anche il marito morì, per quella poverina fu il colpo di grazia. Non voleva più vivere e la salvarono giusto in tempo, proprio un attimo prima che si gettasse dal ponte…quello lì…il “ponte dei disperati”, come lo chiama la gente del posto…” Disse la vecchia indicando proprio il punto che Nagaia voleva raggiungere la notte appena trascorsa. La donna fu attraversata da un brivido talmente forte per tutto il corpo, che quasi gli parve d’essere stata colpita da un fulmine; la pelle rabbrividì e il cuore parve salirgli in gola stringendole il respiro. “…per lungo tempo rimase chiusa in casa; non voleva mangiare, non voleva vedere nessuno. Si stava lasciando morire e…da questo era difficile salvarla” continuò la vecchia. “Poi un giorno una ragazzina bussò al suo portone e le chiese di darle qualcosa…quel che poteva. Le disse che il padre li aveva abbandonati e che sua madre era malata e non poteva lavorare per provvedere a lei e il fratellino; cercava di trovare un po’ di soldi per riuscire a mangiare un boccone di pane…povera piccola. Adele rimase molto colpita da quella sventurata…credo abbia trovato una ragione per lottare, per continuare a vivere…aiutò quella piccina e da quel giorno si dedicò sempre a tutte quelle povere creature bisognose di cure e di affetto: orfani, poverelli e andò persino negli ospedali a portare un sorriso, una favola e spesso anche una bella torta di mele…era divenuta una “boccata d’ossigeno” per quei poveri figlioli. Invecchiò senza mai risparmiarsi un solo giorno; diceva che in ognuna di quelle creature, lei, ritrovava lo sguardo del suo piccolo Davide e che questo gli dava la forza per andare avanti, nonostante tutto. Era diventata un angelo per tanti, tanti bambini; lei però diceva che l’angelo vero ce l’aveva nel cuore e tra le braccia ogni volta che abbracciava un bambino. Presero a chiamarla “nonna Adele”, prima i bambini dell’ospedale…e poi anche tutti gli altri. È morta tre anni fa…aveva novant’anni e fino al suo ultimo giorno si occupò degli altri. E questa è la sua storia figlia mia…ce ne fossero altre, tante altre, al mondo di “nonna Adele”, ma alle volte gli angeli sono tra di noi, solo che neppure loro sanno di esserci”. Nagaia aveva ascoltato tutta il racconto della vecchietta piangendo ed ora non aveva più dubbi. Una vita non si getta via, non si sciupa inutilmente. Non si vive solo per se stessi. Farne dono generoso agli altri è il modo giusto per renderla, a tutti gli effetti, il tesoro prezioso che è. Senza nulla pretendere che ti ritorni, alla fine ti avrà arricchita del valore che più conta. ©Rita Veloce “…e se vi ho emozionato, non limitatevi a cercare gli angeli, siatelo voi per primi.”
1 Comment
La Farmacia d'Epoca è un blog dedicato al collezionismo di vecchie scatole di latta di medicinali curato “un bambino che sin dalla nascita respira senza averci mai badato non sa quanto sia essenziale alla propria vita l’aria che gli gonfia così dolcemente il petto da non averlo nemmeno notato. E se, durante un accesso febbrile, una convulsione, stesse per soffocare? Nello sforzo disperato del proprio essere è quasi per la sua vita che lotta, è per la sua quiete persa che può ritrovare solo con l’aria, da cui non sapeva di essere inseparabile”. “L’Indifferente” – Marcel Proust Come trapela da queste poche righe tratte da “l’Indifferente”, per tutta la sua vita Marcel Proust visse circondato da medici e farmaci a causa di un attacco d’asma che lo colpì all’età di nove anni, creando in lui uno stato di malattia perenne ai limiti dell’ipocondria, che si ripercosse pesantemente anche nelle sue opere letterarie. Intendiamoci: ammalarsi in giovane età a fine Ottocento era una sventura inimmaginabile, soprattutto negli ambienti borghesi, dove la più piccola patologia per forza di cose si tramutava nel peggior anatema. Nonostante la medicina dell’epoca avesse fatto passi da gigante, concepiva ancora il corpo umano come una serie di ingranaggi delicati, il cui minimo spostamento o scompenso avrebbe segnato permanentemente il fisico e l’anima dello sventurato, ancor peggio se costui era un bambino. Insomma, nel 1880 non si sapeva ancora cosa fosse la difesa immunitaria, quindi l’organismo umano era percepito come “inerme” di fronte alla maggior parte delle patologie, e con la complicità dell’alta mortalità infantile che ha caratterizzato il secolo Decimonono, il povero Marcel si ritrovò ad essere considerato come “con già un piede nella fossa” ancor prima di arrivare ai dieci anni di età. Questo lo spronò verso un grado quasi estremo di ipocondria, creando in lui una sfiducia generale nei confronti dei medici che non riuscivano a curarlo. Infatti, nonostante il padre ed il fratello di Marcel fossero patologi conosciuti e rispettati negli ambienti universitari dell’epoca, lo scrittore vide sempre con sufficienza il mondo dei medici, incapaci di trovare una cura definitiva che lo strappasse a quella condizione. All’epoca del primo attacco d’asma di Proust, erano già presenti sul mercato diversi preparati farmaceutici contro l’asma, molti dei quali decisamente inusuali. Sulla fine dell’Ottocento, infatti comparvero le prime sigarette contro l’asma, le famose Sigarette d’Exibard, conosciute in Italia anche come Sigarette d’Abissinia, le carte fumigatorie azotate o allo stramonio, e con lo sviluppo delle tecniche legate agli aerosol anche i primi preparati per inalazioni come l’Antiasmatico Maffioli. Ovviamente va da sé che alcuni farmaci non fossero proprio il massimo dell’efficacia: sigarette e carte fumigatorie spesso contenevano sostanze che alla lunga potevano essere irritanti oppure peggiorare dei quadri clinici già pre-esistenti, come nel caso di asma legato ad enfisema e alcuni preparati per inalazioni avevano il pregio di possedere formulazioni al limite del fantastico e di dubbia utilità nel trattamento della patologia. La vera svolta nel trattamento dell’asma si ebbe solo nel 1949, quando Edward Calvin Kendall annunciò la scoperta dell’ormone cortisone e del suo ruolo nel sopprimere i sintomi legati alla patologia allergica, facendo diventare questa molecola per cui ricevette il premio Nobel, il farmaco d’elezione nel trattamento gli episodi asmatici. Da allora l’asma divenne una patologia sempre più trattabile, complice anche l’invenzione dell’inalatore portatile, anche se, come potete vedere in foto, i primi modelli non potevano certo fregiarsi di questo titolo. Anche se Proust teoricamente all’età di 79 anni avrebbe potuto vedere la fine della battaglia del genere umano contro l’asma, morì per una bronchite in quanto, dal momento che "Le malattie naturali guariscono, ma mai quelle create dalla medicina, perché essa ignora il segreto della guarigione", rifiutò qualunque tipo di assistenza medica, inclusa quella del fratello Robert, soccombendo alla patologia definitivamente il 18 novembre del 1922. Giulia Bovone del blog La Farmacia d’Epoca per Deliri Progressivi L’ uomo tornava dal lavoro, con le sue scarpe da minatore. Ogni giorno percorreva l’intera città, tagliandone le viuzze. Era da poco in quel luogo, conoscenze affatto. Camminava con la testa in giù, per il timore di incontrare la persona sbagliata. Era un armadio a quattro ante, ma nonostante la sua corpulenta imponenza, possedeva una timidezza di altri tempi. Si fermò nel solito negozio, e con una parte della paga giornaliera comprò del pane, un po’ di cacio stagionato, e mezza bottiglia di vino poco sincero. Si assopiva ogni sera, dopo aver bevuto un bicchierino di nettare di città. Tornò a casa, entrò nella sua piccola stanza, chiuse la porta, anche quella sera. I piedi gli facevano molto male, perché le sue solide calzature da inferno sopprimevano l’agio di movimenti sciolti. Se le tolse le scarpe, così come un turacciolo a sughero stappa la bottiglia di sciampagna, nell’ultimo giorno dell’anno che va via. Aveva l’indolenza del lavoro duro scolpita negli occhi, nel viso e nel cuore. Il piccolo tavolo instabile ospitava una cena spartana, ma goduta. Prese la pagnotta di pane fresco, la tagliò col coltello d’acciaio, la riempì del cacio. Assaporò il paradiso di un morso di cibo. Poi, prese la bottiglia di vinello, la aprì, ne versò un bicchiere nel recipiente di materiale plastico che aveva sulla sua povera mensola. Si sentiva strano quella sera, credeva che qualcosa sarebbe avvenuta, prima o poi. Finita la cena, prese il vecchio libro, quello scritto da un autore secoli fa. Inforcò i suoi antichi binocoli a vetro, e cominciò a leggere. Era una storia che trattava di lotte quotidiane per la sopravvivenza, di quelle brutture che i Signori bene reputano argomenti poco consoni al loro rango. C’era una volta- diceva la storia- una donna sola, robusta, che lavorava nei campi, spendendo tempo nei mestieri da agricoltore. La donna si levava alle quattro del mattino, e senza fare colazione, iniziava a governare gli animali, così come volevano i suoi genitori. Nonostante la grande fatica, la donna, guerriera ateniese, compiva ogni suo dovere col sorriso sulle labbra. S’inerpicava su quelle montagne al pari dei camosci alpha. Si chiamava Hera, viveva in un piccolo villaggio di cinquanta anime. Aveva perso i genitori in giovane età. Era Lei ora il capo famiglia. Insieme alla donna, due fratelli, chiamati da tutti ‘’i muti’’, perché parlavano poco, dedicandosi a soddisfare una fame atavica, generata dalla loro tenera età. I due fanciulli avevano però una manualità senza pari. Riuscivano infatti, ad estrarre il meglio da ciocchi di legno abbandonati sulla riva del lago. Arredarono così la magione della sorella, loro che la chiamavano mamma, perché i loro genitori non ebbero il tempo di conoscerli, questi due artigiani indiavolati. Si rotolavano come funamboli tra i prati, scivolando sullo sterno sull’erba bagnata. Ares ed Eolo erano due gioviali canaglie, sempre pronti a celiare la sorella. Avevano una pigrizia che li portava a sottrarsi ai doveri, quando la loro sorella allentava i quotidiani controlli. Erano giovani sì, ma c’era bisogno di una dose di disciplina, che Hera impartiva loro, conservando quel suo modo di fare da regina. Giunsero le undici, l’uomo scorse la quattordicesima pagina della storia, fece un segno, l’orecchio di un coniglio. ‘’Lo leggerò domani’’- disse il minatore, stanco. Si tolse gli occhiali, sciacquò i suoi occhi, e si mise a letto. Durante la notte, sentì uno scricchiolio sul tetto. No ci fece caso, perché le tegole erano vecchie, ma avevano memoria, come quei libri che conservano il segno dei loro lettori. ‘’Buonanotte, Hera, Ares ed Eolo’’- disse l’uomo. Si addormentò, con la gioia e la stanchezza di aver trovato una nuova storia, da raccontare ai suoi compagni di fatica. E l’indomani l’inferno della cava l’avrebbe atteso, ancora una volta! Vincenzo Cinanni Che altra realtà si nasconde dietro quel pezzo di stoffa? Sostiene l’amica Maria: gli uomini possono ingannare altri umani, infangare... depistare, ma non hanno potere su Dio, che vede, tace e sa, alla fine della nostra vita, quando far riconoscere la Sua autorevolezza. L'autorità di certi uomini risiede nella stupidità. Aggiungo io, il tempo non scorre invano; prima o poi giustamente si vince... Ne sono piu` che convinto, anche se pensare così è come se la luna splendesse il sole. Tanti anni, durante le indagini sull'omicidio di un uomo, conobbi i giustizieri, i quali affermarono, grazie alle imprecisioni degli organi di stampa, di aver trovato nel mio giardino un passamontagna, usato dai banditi presumibilmente per il delitto. In realtà, fu trovato a due isolati da casa nostra. Gli assatanati di giustizia (ma da qualche esperto del settore definititi come anime di Satana) si limitarono a rompere di notte i vetri della macchina di mio fratello nonostante ciò le autorità non provedettero ad informare i giornalisti per essere più precisi. Da allora, sono passate tante lune. Quel ritrovamento fu l’unico elemento a cui gli investigatori si erano appigliati. Il copricapo fu ritrovato in uno spazio di giardino, e all’esame della scientifica, furono riscontrati, oltre capelli umani, dei peli di razza ovina: come se in quel giardino avessero pascolato anche le pecore! Dalla descrizione era un tipo di passamontagna usato dai giovani di quel periodo. Secondo la ricostruzione: uno dei banditi nella fuga era entrato nel giardino per sotterrare il passamontagna e poi aveva ripreso la sua corsa. Praticamente, come se avesse avuto tutto il tempo a disposizione, lasciatogli in omaggio dalla “giustizia”! Una signora che lo individuò per primo lo trovò ben nascosto, ma gli investigatori scrissero nel verbale che era ben visibile. Che altra realtà si nasconde dietro quel pezzo di stoffa? Sostiene l’amica Maria: gli uomini possono ingannare altri umani, infangare... depistare, ma non hanno potere su Dio, che vede, tace e sa, alla fine della nostra vita, quando far riconoscere la Sua autorevolezza. L'autorità di certi uomini risiede nella stupidità. Aggiungo io, il tempo non scorre invano; prima o poi giustamente si vince... Ne sono piu` che convinto, anche se pensare così è come se la luna splendesse il sole. Appunto un depistaggio? SI`, ANCHE SECONDO ME. Ho un sesto senso strano. Secondo me, c'è dietro anche una storia di femmine, oltre quella malavitosa, e credo, comunque, che il cappuccio ha una storia a sè. Secondo me, non c’entra niente con l’omicidio; non ha nessun legame, insomma. Quando ho riletto gli atti e le varie incongruenze di qualche persona mi sono rinvenute in mente tutte le stranezze del caso: prima o poi uscirà tutto. Sai, sento che questo non è un caso normale. Mi sa che qualcuno, magari spinto da altri, stia uscendo allo scoperto. Sì, caro mio, sento che ci saranno novità, come hanno vociferato da sempre, e una questione anche di lolite. In ogni caso vi è un mondo che sta per venire fuori, in cui primeggiano personaggi illustri: la vergogna che non vogliono! Ho a cuore la tua storia; da ragazza vivevo a Is Mirrionis, il luogo in cui è maturato il delitto, per il quale fu accusato innocente tuo fratello. Si sapeva tutto... Pezzi di merda, pagavano le forze dell’ordine, hanno ucciso tuo fratello e mezza Cagliari sapeva... Io allora ero ragazzina; quel quartiere per tanti anni ha avuto il titolo incontrastato di campione d'Europa: la più alta criminalità minorile di tutta l’Europa. Per favore, non calunniamo la magistratura, tanto meno le forze dell’ordine... qua la responsabilità è personale, quindi si fanno i nomi senza generalizzare. E' vero che alcuni appartenenti a quell’ambiente lavoravano nel negozio dell’uomo assassinato, e che le loro generalità sono state chieste dopo 12 anni dagli inquirenti, a seguito della nuova inchiesta secondo la quale sono state condannate altre persone per il delitto, per il quale venne accusato Aldo. E' anche vero che dopo due anni dalla morte di Aldo, la Polizia, a firma di persone già a conoscenza della procura, si rifiutò di comunicare un rapporto dove vi erano i nomi dei nuovi indagati. Uno di questi poi, successivamente condannato, lasciando con il dubbio Aldo Scardella colpevole. Usciranno fuori anche i mostri sacri... si sveleranno alla fine. Si, visto che io ho messo tutta la mia faccia, ora devono uscire fuori. Il morto era in contatto con pezzi grossi e saranno loro a fare il tonfo... Speriamo presto, cosi mi ritiro veramente... forse ci vorranno altri due anni. Non credo... io dico un anno e poi scoppia la bomba. Allora non facciamo deduzioni, aspettiamo. Io so che ci sono questi personaggi, li ho avuti e li ho vicini sempre. Hanno mosso altri per depistare quello che hanno fatto. E` mostruoso, peggio degli inquirenti, e solo un colpevole poteva salvarli e coprirli. Non potevano gestire quello scandalo, certo che no, era troppo, e ancora di più in quei tempi. Considera che questi erano amici a loro volta con persone come… Però dura a scoppiare la pentola... sì, ma in quasi 30 anni scoppierà anche l’acqua! Figurati, una pentola a fuoco basso, certo, prima o poi esce tutto. Sta uscendo gia` la vera causa della sua morte innocente. Appunto, ora è tempo che tutto venga fuori e che Aldo riposi in pace, penso che sia ora. Vediamo cosa dicono i tutori della legge, dovranno cedere Cri; ora il cerchio si deve chiudere... Penso seriamente che le bugie si stiano dissolvendo... che nel mio incidente abbiano indagato. Se Se non l’hanno fatto sono doppiamente cretini, se tutto si avvera gliene chiediamo conto. Molti crimini compiuti dai rappresentanti dello Stato non vengono puniti e nemmeno visti, pur essendoci testimoni: poi dicono che solo i ladri non vedono, non sentono e non parlano. Alla “giustizia” non importa se sei colpevole o innocente... Quelli, anche se non c’entri, vogliono il colpevole e basta, vogliono che confessi e basta! SI comportano allo stesso modo dei rappresentanti di Dio: se non confessi i tuoi peccati, non verrai assolto dal Signore. Convinti, la legge, che tra peccato e reato sia la stessa cosa. La “giustizia è come Lucifero, l’angelo ribelle: vuole essere Dio; inoltre molto spesso è tre volte crudele: col reo innocente, con la sua famiglia e con la società; solo che una buona parte di essa fa finta di non rendersene conto. Mi sembra tutto così assurdo, forse il senso non è di questa terra: per il solo motivo di non aver vissuto appieno la vita che si sarebbe voluto vivere. Finchè la nostra anima produrrà un’emozione al nostro cuore vi sarà la possibilità di una pace tra simili. Comunque, sono doppiamente cretini. Dormi bene, amico caro, che presto avrai la verità e la tua anima avrà compiuto un miracolo per Aldo... e un miracolo anche per l’uomo! Cristiano Scardella "Furono tre, infatti, i banditi, armati e col volto coperto da passamontagna che il 23 dicembre 1985 fecero irruzione nell'emporio di Pinna. All'ingiunzione di consegnare i soldi ci fu un accenno di reazione e i banditi spararono, uccidendo il commerciante. Pochi giorni dopo venne arrestato Aldo Scardella che si suicido' nel luglio successivo, dopo avere sempre ripetuto la sua innocenza." ....ci sarà il bambino che romperà l’uovo con impazienza “esplosiva”, facendo saltare pezzetti di cioccolata ovunque, quello che cercherà di aprirlo giusto in due metà, quello che rimane un attimo ad osservarlo per capire come aprirlo e quello che, guardando l’adulto autore del regalo, chiederà “posso romperlo?” . L’UOVO DI PASQUA (RIFLESSIONE) Tante cose può dirci un uovo di Pasqua regalato ad un bambino, se siamo “osservatori”. Ad esempio può rivelarci con largo anticipo “l’uomo (o la donna) di domani”. Già dallo scartarlo vedremo le varie differenze comportamentali: ci sarà il bambino che lo scarterà con cura, con pazienza o comunque con calma e quello che lo scarterà frenetico, rivelandosi impaziente, e ancor più se invece di sciogliere il fiocco, per l’impeto, lo dovesse annodare o ingarbugliare. Una volta arrivati all’uovo “nudo e crudo”, ecco le ennesime differenze: ci sarà il bambino che romperà l’uovo con impazienza “esplosiva”, facendo saltare pezzetti di cioccolata ovunque, quello che cercherà di aprirlo giusto in due metà, quello che rimane un attimo ad osservarlo per capire come aprirlo e quello che, guardando l’adulto autore del regalo, chiederà “posso romperlo?” . E la sorpresa? Questa è la parte più “istruttiva”! L’incontentabile, il pignolo, il polemico (del futuro, ma che già da chiari segnali) sarà quello che difficilmente se ne sentirà appagato e felice; qualsiasi sorpresa troverà non sarà mai quella che si aspettava. L’introverso non esternerà la sua soddisfazione e il timido si limiterà ad un sorriso “d’approvazione”. Il cuore semplice, umile e gioioso (ecco i miei preferiti), invece, saranno un vulcano di felicità, sia che all’interno abbiano trovato proprio ciò che risponde alle loro aspettative e desiderio, sia che la sorpresa sia davvero una sorpresa. Certamente la vita “plasma” poi ognuno di noi a seconda delle esperienze vissute, ma il carattere “di base”, a mio parere, decisamente nasce con noi. Ma, tranquilli, la sola cioccolata, nella maggior parte dei casi, fa poi felici tutti! BUONA PASQUA A BAMBINI ED ADULTI! Rita Veloce Altre streghe, altri eretici, altri alchimisti, altri vampiri. Chi sono oggi? Ero tra i rovi a raccogliere bacche e mentre respiravo la leggera aria boschiva, muschiata d’intensi profumi, mi tornavano alla mente antiche leggende, che ancor oggi, seppur flebili, echeggiano tra queste felci e questi faggi. La strega del bosco: malvagia, crudele, che il sonno rubava ai bambini del vecchio villaggio posto ai piedi del monte e che a lui si prostrava timoroso. Lei era stata scacciata fanciulla; come me, raccoglieva erbette ed aromi per farne tisane o, come credevano gli stolti, pericolose pozioni e veleni. Una fanciulla, poco più che bambina, orfana e costretta a pensare a se stessa, da sola; come sola si ritrovò tra i lupi e i cinghiali zannuti. Ma neppure questo saziò e quietò la loro ignoranza; andarono a prenderla nella piccola baracca di legno che ella stessa si costruì con dei piccoli tronchi raccolti lungo il fiume. Credeva fossero tornati compassionevoli, pentiti, per riportarla al villaggio; credeva fossero tornati con l’umanità, fino ad allora negata, in quei cuori dissalati da inutili paure. Invece erano lì per farne di lei banchetto per le fiamme, mensa purificatrice che esorcizzasse le loro sventure. La legarono ad un palo di legno, posto sopra un’alta fascina di ciocchi e sterpaglie, mentre lei supplicava le loro anime cercando una pietà che non concepivano, ottusi com’erano di misericordia e ragione. Pregò e supplicò finché le fiamme non cominciarono a sbranarle le carni; fu allora che li maledì, con una sentenza dal tono agghiacciante, nel suo ultimo disperato respiro di vita. Volevano credere alle streghe e fu offerta loro la maledizione che li avrebbe tormentati e condizionato l’esistenza, più di quanto avesse mai potuto fare un senso di colpa, semmai lo avessero provato. Riflettevo, mentre ricolmavo la cesta di more, quanto incolta e selvaggia fosse la gente d’un tempo e l’animo mi si colmò di tristezza; poi mi resi conto che quell’umore non si legava tanto a faccende passate, quanto più ad ignoranze moderne. Altre streghe, altri eretici, altri alchimisti, altri vampiri. Chi sono oggi? Ruoli cambiati, vesti diverse, altre arti, altre scene, un’altra epoca, altre maledizioni ed altri malefici. Forse solo gli stessi occhi innocenti e indifesi che si accecano guardando troppo sole. Diversi agnelli immolati sugli altari sacrificali. Nessuno aveva visto, erano tutti voltati da un'altra parte. Nessuno sapeva o avrebbe mai creduto. Si indignano, rabbrividiscono dinanzi eventi eclatanti, scene raccapriccianti, delitti efferati, eppure coloro che non avevano trovato il tempo per accorgersi che un piccolo fiore veniva condotto sul rogo delle streghe, trovano poi il tempo per curiosità morbose o inutili sproloqui profanatori di quelle vite già crudelmente spezzate. Questi siamo noi? E dove, in noi, nel trascorrere dei secoli, è avvenuta l’evoluzione, la civilizzazione? Quale differenza c’è tra il declinare responsabilità e allestire falò? Nessuna, se alla fine, comunque un innocente è stata sacrificata sul palo delle streghe. Rita Veloce La Farmacia d'Epoca è un blog dedicato al collezionismo di vecchie scatole di latta di medicinali curato da Giulia Bovone. Dal momento che le informazioni su questi oggetti sono piuttosto rare, Giulia ha scritto un articolo sulle Tubercolosi. "La chiamavano il “mal sottile” proprio perché aveva il potere di prosciugare il corpo, conferendo quella mostruosa magrezza, che pareva così soprannaturale da radicare la convinzione che quegli scheletri ambulanti dagli occhi rossi, gonfi che sputavano sangue non fossero malati di tubercolosi, ma vampiri.." Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto, mio cuore, bambino che è tanto felice d'esistere al mondo, pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori sovente qualcuno che picchia, che picchia... Sono i dottori. Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni, m'auscultano con li ordegni il petto davanti e di dietro. E senton chi sa quali tarli i vecchi saputi... A che scopo? Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli... «Appena un lieve sussurro all'apice... qui... la clavicola...» E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro. «Nutrirsi... non fare piú versi... nessuna notte piú insonne... non piú sigarette... non donne... tentare bei cieli piú tersi: Nervi... Rapallo... San Remo... cacciare la malinconia; e se permette faremo qualche radioscopia...» Guido Gozzano – Alle Soglie La chiamavano il “mal sottile” proprio perché aveva il potere di prosciugare il corpo, conferendo quella mostruosa magrezza, che pareva così soprannaturale da radicare la convinzione che quegli scheletri ambulanti dagli occhi rossi, gonfi che sputavano sangue non fossero malati di tubercolosi, ma vampiri. Prima dell’arrivo sul mercato degli antibiotici, ammalarsi di tubercolosi era considerabile un vero e proprio supplizio, lento ed inesorabile, contro cui non era possibile fare nulla, se non accettare il proprio triste fato, come ironicamente fa Guido Gozzano, nella poesia “Alle Soglie”. La tubercolosi gli fu diagnosticata nel 1907, e da quel momento la malattia entrò a far parte della sua poetica, così come quel mondo medico ancora lontano dal capire la vera natura del Mycobacterium tubercolosis, e perciò di impostare una cura efficace per la patologia. Il Mycobacterium fu isolato per la prima volta da Robert Koch nel 1882, ma ci vollero anni prima che fossero identificate le vie di contagio manifeste, prime tra tutte lo starnuto e lo sputo, e quelle non così identificabili a prima vista, come il latte proveniente da bestiame infetto, veicolo di diffusione soprattutto tra quei neonati le cui madri non avevano abbastanza latte o denaro per acquistare le farine lattee: la tubercolosi bovina, infatti viene trasmessa anche all’uomo. Quindi anche se i medici dei primi anni del Novecento, davano per certo che fosse il Mycobacterium tuberculosis a causare la malattia, purtroppo non avevano le idee ben chiare circa come curare la patologia in sé, anche se concordavano sul fatto che i tubercolotici dovessero “cambiare aria” e condurre una vita il più possibile rilassata, lontano dagli “strapazzamenti” di allora: notti insonni passate a scrivere poesie, compagnie femminili, il fumo, e se fosse stato possibile trasferirsi in Riviera o comunque in una località marittima, tutti precetti di poca utilità e scarso valore terapeutico nei confronti di una malattia batterica. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento esistevano una grande quantità di farmaci, strutturati per la tubercolosi, ma poco o nulla era d’aiuto: il Fisocal Guidotti, lo sciroppo Bronchiolina, la Fitina CIBA, ricostituente utilizzato in caso di tubercolosi ossea, polmonare e cutanea, e moltissimi altri non potevano nulla, se non dare un po’ di sollievo a quegli sventurati colpiti dalla malattia: i loro principi attivi erano come acqua fresca per il Mycobacterium. La vera svolta nel trattamento della malattia si ebbe nel 1908, grazie alla collaborazione di un medico, Albert Calmette, con il veterinario Camille Guérin. I due avevano intuito che la virulenza del Mycobacterium nei bovini diminuiva con l’aumentare delle generazioni batteriche, ovvero, più la coltura era “vecchia”, meno il batterio era pericoloso. Così 13 anni dopo, e ben 230 colture batteriche lasciate crescere su fette di patate, nacque il vaccino per la tubercolosi, ovvero una variante avirulenta del microrganismo, il quale riusciva a scatenare una risposta immunitaria a lunga durata nel corpo umano, mettendo al riparo dalla malattia. Nel 1922 nacque in Italia la Federazione Italiana per la Lotta alla Tubercolosi, di cui molti ricorderanno i chiudilettera da 10 lire, il cui ricavato era destinato all’eradicazione della tubercolosi tramite campagne di sostegno alle famiglie colpite dalla malattia e dal 1948 in poi anche di vaccinazione. Da allora i casi di TBC in Italia sono diminuiti, ma la strada da percorrere è ancora lunga: infatti ad oggi non siamo stati in grado di mettere la parola “fine” a questa patologia, che colpisce ancora gravemente molti Paesi del mondo, soprattutto dell’Africa sub sahariana, a causa dell’inesistenza di un adeguato piano di vaccinazioni. Giulia Bovone della Farmacia d’Epoca per Deliri Progressivi Disagio, ribellione, ricerca di una propria identità furono dunque i tratti identificativi dei giovani di quegli anni, connotazioni che si ritrovarono poi nei successivi movimenti studenteschi e di opinione che fiorirono poco tempo dopo. I fenomeni giovanili di massa sono stati spesso osteggiati dalla cultura ufficiale, quella di stampo più tradizionale e conservatore. Portatrici di germi di ribellione nei confronti di una società appiattita solo su valori borghesi, le nuove avanguardie dei giovani negli anni sessanta cercavano di distinguersi dal comune pensiero, sforzandosi di trovare una propria identità che li caratterizzasse attraverso la musica, gli abiti, gli oggetti simbolo. Spesso considerate a torto delle subculture, anche a causa del loro rifiuto a farsi catalogare a livello ideologico o politico, questi movimenti hanno viceversa contrassegnato un’epoca con i loro stili di vita e con la loro vibrante protesta verso la società, una protesta che aveva lo scopo di rivendicare il diritto di essere giovani: questo avvenne soprattutto in Inghilterra, paese pregno di quell’humus culturale dentro cui sono sempre germogliate tendenze e mode che hanno fatto proseliti altrove. Negli anni sessanta si affermarono due movimenti giovanili in forte contrapposizione tra di loro. I rockers, che provenivano in massima parte dai quartieri più poveri di Londra, giravano nei loro giubbotti di pelle, impreziositi da spille o stemmi di club amici, su grosse motociclette. Sfoggiavano basette lunghe, capelli imbrillantinati, ed adoravano il rock’n roll di idoli quali Cochran, Vincent, Presely. I loro ritrovi storici erano l’Ace Cafè e il Club 59 a Londra, e la zona di Brighton, cittadina affacciata sulla Manica, meta dei loro weekend. I rockers, che per molti versi hanno ripreso alcune caratteristiche dei primi teddy boy, banda giovanile degli anni cinquanta profondamente legata alla musica rock’n roll americana, vivevano nel culto della motocicletta cui associavano i valori di forza, coraggio, spavalderia, in una concreta rappresentazione del mito del ribelle reso famoso da Marlon Brando nel celebre film “Il selvaggio”. I mods si differenziavano dai loro rivali soprattutto per il mezzo di locomozione (scooter italiani su cui applicavano numerosi e vistosi fari), per la musica (il jazz e il rock britannico di Who, Yardbirds e Rolling Stones), per l’abbigliamento (abiti sempre ben curati come parka, giacche di velluto, polo Fred Perry e mocassini), e per l’acconciatura dei capelli, non troppo lunghi e sempre ben pettinati. Le altre importanti differenze che li distinguevano dai rockers erano la loro provenienza, non certo riferibile al sottoproletariato dei loro antagonisti, e l’esibizione orgogliosa della bandiera nazionale (la Union Jack) e dei simboli o stemmi appartenenti alla Royal Air Force. Dall’antagonismo ad un vero e proprio conflitto il passo fu breve. Le cronache raccontano che il 28/3/64 a Clayton ebbe luogo un’autentica battaglia tra le due fazioni, un feroce e violento combattimento avvenuto con mazze e coltelli. Lo scontro durò ben due giorni e terminò con un numero impressionante di feriti, oltre a centinaia di arresti: altre risse, scoppiate a Brighton e ad Hastings, contribuirono a contrassegnare queste bande, agli occhi dell’opinione pubblica, come pericolose. Questa cattiva reputazione affibbiata a loro fece in modo che i sentimenti di rivalsa e di contrapposizione nei confronti della società si dilatassero, finendo poi per trovare nelle strofe di “My generation” degli Who la quintessenza del loro pensiero. “La gente cerca di metterci sotto solo perché ce la spassiamo in giro le cose che fanno sono così terribilmente fredde spero di morire prima di diventare vecchio” (My generation – The Who) Disagio, ribellione, ricerca di una propria identità furono dunque i tratti identificativi dei giovani di quegli anni, connotazioni che si ritrovarono poi nei successivi movimenti studenteschi e di opinione che fiorirono poco tempo dopo. Eugenio Nacimbeni
C’è nebbia questa mattina; le colline sono come scomparse, inghiottite dall’aria umida e densa. Neppure gli ulivi, con le loro fronde argentee e i contorti tronchi secolari, riescono a tagliare quest’appanno con le loro sagome scure. Da lontano l’abbaiare insistente d’un cane sollecita quelli più vicini a fare altrettanto. <<Che diavolo hanno da abbaiare? È già deprimente quest’aria, ci mancavano loro a rendere la mattinata ancora più fastidiosa!». Dennis è particolarmente nervoso e si è svegliato già arrabbiato con il mondo. Ultimamente le cose non vanno affatto bene; sembra davvero che nulla vada per il verso giusto. Non riesce a trovare lavoro ma, ancor peggio, non riesce a trovare un suo posto tra gli altri, il suo ruolo, il suo scopo. «Dovrei uscire…”dovrei”, ma perché dovrei? È inutile battere campi già battuti, ripetere domande già fatte…per cosa poi? Per sentirsi dare sempre le stesse risposte? Altro non c’è da fare lì fuori; eppoi, con un tempo così…meglio restare a casa» pensa tra sé e sé il giovane. Prepara lentamente la moca e accende il fornello a fiamma bassa, poi si siede al tavolo della cucina e accende il portatile lasciato lì sopra la sera prima. Accede al profilo che si era creato in un social network e “da un occhiata in giro”. «Bla, bla, bla…sempre le solite inutili stupidaggini; i soliti sdolcinati saluti e commenti. Sembra che non abbiano niente da fare dalla mattina alla sera, sempre collegati…già…come me del resto» pensa con un velo di sarcastica tristezza. Il rumore del caffè che gorgheggia nella caffettiera è musica in quel momento. Dennis se ne versa una tazzina e torna a sedere davanti al PC; tanto, non ha niente di meglio da fare. La luce rossa in alto a sinistra della pagina aperta attira il suo sguardo. È un messaggio arrivato. «Mi sono svegliata questa mattina come sempre nel vuoto; la mia notte è sempre buia e il giorno non ha certo più luce della notte. Dennis, perdonami, sei stato uno dei pochi amici, di questo bizzarro mondo virtuale, ad esserci sempre stato, ma io non ci riesco, amico mio, non riesco più ad esserci, non riesco più a credere che possa cambiare qualcosa. Non cambierà nulla, né la mia vita, né il mio dolore, nulla. Addio, mi dispiace. Cinzia.» «Che significa? Vuole farla finita?...ma porca miseria…che gli passa per la testa a quella matta?» dice il giovane a voce alta. «8,40…è di tre minuti fa, speriamo ci sia ancora: «Cinzia, ci sei? Parlami, per favore…». Dennis cerca le parole per trattenerla in chat e prega Dio di trovarne poi altre per farla desistere, per fermarla. «Si, ci sono…» è la risposta e tra i due inizia uno scambio di battute. «Cosa ti prende stamattina? Che c’è di diverso? È la solita giornata di merda…passerà anche questa…o è successo qualcos’altro? Dimmi…» «Niente, non c’è niente di diverso…non è accaduto nulla di nuovo..è questo il punto…» «Non capisco…spiegami» «Sono stanca Dennis…non c’è niente da capire…sono solo stanca…» «Ascolta…stamattina mi sono svegliato e ho trovato la nebbia…non si vede ad un palmo di naso e tanto…non c’è niente da vedere. Odio la nebbia, ma stranamente, forse è l’unica cosa di diverso che mi è capitato da tantissimo tempo a questa parte. Credi non ti capisca? Sono stanco anch’io…però…ascolta…che ne pensi di incontrarci? Ne parliamo di persona magari…è più semplice…qui non mi riesce» «Parlare di cosa Dennis? Credi che ci cambierebbe la vita? Lascia stare…lo sai come la penso…» «Mettila così…cos’hai da perderci? So bene come la pensi: “niente incontri”, ma…per una volta Cinzia…una volta soltanto…facciamo solo una passeggiata, una gita…magari non ci cambia la vita, ma meglio che stare in questo guscio di noce a vaneggiare, no?» «Ahahah…un guscio di noce…ok, forse hai ragione tu, tanto peggio di così non può andare» «Visto? Ti ho fatto sorridere…forse in fondo la mia inutile vita può servire a qualcosa. Prendo la macchina e vengo da te. Dove ci vediamo?» «Quando sarai qui sarà ora di pranzo da un pezzo…facciamo così..c’è una pizzeria all’entrata del paese “Pepe e Sale”, è il nome, non è difficile da trovare…te la troverai proprio davanti. Ci vediamo lì» Dennis esce di casa come un fulmine, non è poi così sicuro che la donna lo incontrerà davvero, né che dissolverà quei lugubri pensieri aspettandolo, ma ci deve provare; in fondo la sente davvero “parte della sua vita”, seppure una vita “virtuale”. Seicento chilometri in poco più di quattro ore. Forse ha guidato da incosciente, ma il suo unico pensiero era fare il prima possibile. All’entrata del paese si va sempre dritto, impossibile sbagliarsi: l’insegna di “Pepe e Sale”se la trova davanti proprio come descritto. «Assurdo. Neppure l’ho mai vista e non ho neanche il suo cellulare. Questo non è tuffarsi nell’avventura, è follia pura» pensa l’uomo tra sé e sé. Fuori della pizzeria i tavolini sono pochi, ma tutti occupati e Dennis, accostata la macchina, si ferma ad osservare i commensali uno ad uno. Sono per lo più ragazzi, sicuramente studenti; un paio di coppiette e: «Eccola, sicuramente è lei» pensò l’uomo guardando una donna sola, sulla quarantina, decisamente con l’aria di essere in attesa di qualcuno, visto le volte che nervosamente guardava l’orologio. Dennis scende dalla macchina e si dirige verso di lei. Cinzia ha notato la scena e si è raddrizzata sulla schiena tradendo sul viso la lecita domanda: “sarà lui?”. Ma la donna ha il vantaggio di averlo visto in foto, dato che Dennis l’ha usata come immagine del suo “profilo”sul social network. Vederlo di persona, però, è decisamente tutta un’altra cosa. «Cinzia?» è banale la domanda, ma dovuta, per non cadere in errore; Dennis doveva farla. La donna annuì con un sorriso. «Ciao! Ho fatto il prima possibile, è tanto che aspetti?». Ora per Dennis si presenta la parte più difficile, forse lo sarà per entrambi, intraprendere una conversazione. Il cameriere della pizzeria, per ora, li toglie dall’imbarazzo. I due ordinano lo stesso tipo di pizza: una margherita. Chissà, forse piace davvero ad entrambi più di tutte, o forse nessuno dei due ha voluto complicare l’ordine. «Sono qui da mezz’ora ed ero convinta che ti avrei aspettato ancora per un bel po’» fu la tardiva risposta della donna; e continuò: «Ma non c’era nebbia dalle tue parti? Sei stato un incosciente a correre in questo modo. Non ce n’era bisogno, ti avrei aspettato». «Non mi sembra che avessi molta scelta, non mi hai certo mandato un messaggio gioioso e sereno stamattina» replica l’uomo un po’ scherzosamente. Il cameriere arriva presto con due belle pizze fumanti e i due cominciano a mangiare discorrendo di banalità, con domande e risposte inerenti al luogo circostante, comparandole ai luoghi d’origine di Dennis. Alla pizza si aggiungono due porzioni di patatine fritte e due aranciate, ma il pranzo è presto finito e il conto pagato, dopo un breve dibattito tra i due sul chi doveva offrire. «C’è un fiumiciattolo che taglia il paese e, poco distante da qui, un sentiero che porta ad una sorgente. È un posto molto bello, se ti piace la natura; che ne pensi, facciamo una passeggiata lì?» propone Cinzia. «Mi sembra un ottima idea e poi qui da voi c’è un sole delizioso. Andiamo» è la risposta. I due s’incamminano a piedi e Dennis segue Cinzia in silenzio; al momento ha finito gli argomenti poco impegnativi da affrontare. Imboccato il sentiero, la salita comincia a pesare sul respiro dell’uomo che non riesce più a nascondere l’affanno. «Non sei abituato a camminare, vero? Ma non ti preoccupare, non andremo fin sulla cima della montagna. Ci fermiamo poco più sopra di qui, alla cascata. È piccola, ma vedrai che è un posto davvero delizioso» dice la donna indicando un punto che, a linea d’aria, pareva davvero vicino. Cinzia abbassa il capo per nascondere un sorriso un po’ beffardo che le sfugge nel notare lo sguardo preoccupato di Dennis mentre punta il naso verso la cima del monte. In effetti, dopo mezz’ora di salita, sopraggiungono alla cascata. Lo scenario che si presenta davanti agli occhi dell’uomo supera tutte le aspettative; è stata dura per lui, ma ne era valsa decisamente la pena. Si respirava un aria leggera, che profumava di terra ed erba bagnata. La cascata non era molto grande, ma la caduta era piuttosto alta. Un’impalpabile nebulosa d’acqua s’alzava, dal basso verso l’alto fino a toccare il cielo, e creava, investita dai raggi del sole, un meraviglioso arcobaleno dalle sfumature intense e ben delineate. Dennis non ricorda di averne mai visto uno più bello e gli sembrava così vicino che se si fosse arrampicato un po’, solo un po’, per il pendio, era convinto che sarebbe riuscito a toccarlo. Di certo lo sentiva sul viso, racchiuso in quelle minuscole goccioline d’acqua di cui l’aria era pregna. E non era solo una sensazione visto che, ad un certo punto, si rese conto d’esser umido dalla testa ai piedi. Cinzia lo vide toccarsi i capelli, il viso e i vestiti e disse: «Eh si, ci siamo decisamente bagnati. Colpa mia, dovevo pensarci e portare due impermeabili; ne ho sai? Ma non l’ho portato neppure per me. Eppure ogni tanto ci vengo qua su e lo so bene. Vieni… spostiamoci al sole e un po’ più distanti, ci asciugheremo in fretta, vedrai». Dennis sorride e la segue nel punto che lei gli indica. In effetti, sotto i raggi diretti del sole si stava decisamente più caldi e sicuramente si sarebbero asciugati in men che non si dica. Stare seduti li al sole, su quel lembo di prato come due lucertole, gli svuota la mente da tutti i suoi tormenti e, senza quasi accorgersene, Dennis comincia a raccontare, non dei suoi problemi, quelli sono stati detti e ridetti, ma dei suoi sogni di ragazzo che, oramai, sente irrealizzati e perduti: «Era così bella la spensieratezza…se solo ne fossi stato cosciente! Avevo tanti sogni e non ho avuto modo, o coraggio, di realizzarne neppure uno. Ed ora… ora non si torna indietro». «Credo che un po’ tutti abbiamo da contestare le scelte fatte o recriminare sulle occasioni mancate, rammaricandosi del proprio vissuto. Eterni insoddisfatti, ecco cosa siamo, ma i rimpianti e le nostalgie non servono né a cambiare il passato, né a migliorarci il futuro. Possiamo solo fare tesoro degli errori commessi, portare di buona lena il peso del nostro vissuto, vedendolo come prezioso bagaglio e guardare avanti con fiducia, più che altro in noi stessi che nel destino. Gli eventi non si attendono inermi, si creano!» pronunciò Cinzia, lasciando Dennis attonito nell’udire quelle parole. «Ma come, non eri quella che stamattina era pronta a farla finita? A gettare la spugna, arrendendosi ad una vita che non gli stava dando più nulla?» replicò l’uomo. «Farla finita?...suicidarmi intendi?...Io?...ahahah..» rispose la donna scoppiando in una fragorosa risata. «Hai frainteso Dennis, io volevo solo chiudere il mio “profilo”; uscire da quel mondo vuoto di sentimenti veri, di gente autentica …» concluse Cinzia, spiegando il malinteso. «Va bene, ho frainteso, ma mi sono preoccupato per te; ho fatto seicento chilometri per venire a salvarti…o almeno, è ciò che credevo. E tu dici che in quel mondo virtuale nulla è reale? Non ci sono persone sincere, sentimenti veri?...e io chi sono? Cosa sono?» La donna smette il sorriso, Dennis ha ragione. Ha giudicato “l’ insieme”, senza guardare i “singoli”. In effetti, ora che ci riflette su, qualche buon amico c’era, lì per lei. Amici sempre presenti, anche se non erano collegati nel preciso istante del bisogno di loro. Amici sempre pronti ad ascoltarla, anche se alle volte i suoi discorsi erano magari un po’ sconclusionati. Un amico come Dennis. No, non Dennis; lui era speciale per lei e forse era questo il suo problema. Cinzia abbassa lo sguardo, mentre tristezza, e forse vergogna, le velano il viso. Ora è Dennis a sorridere e a “tirare a se” la donna per una spallina della giacca, per poi avvolgerla teneramente in un abbraccio. Eh si, qualcosa di nuovo, quel giorno, era davvero accaduto e non era certo quella maledetta nebbia. Se a distanza, e dietro un monitor, i sentimenti si svelano incerti, confusi, in un abbraccio reale tutto diviene più chiaro, rivelatore. Forse, in realtà, l’inquietudine di entrambi, il senso di vuoto, era proprio la mancanza di quel contatto, di quel finalmente capire, di poter finalmente “toccare con mano” un sogno. Un duro e freddo guscio di noce, in fondo, non rivela la sua anima morbida e nutriente? Sentirsi vivi davvero. La vita è bella perché, proprio quando credi che non ci sia più nulla di lei che possa stupirti, eccola pronta a travolgerti e stravolgerti…e con il dono più prezioso che ti può fare: l’amore. Chiudersi in un “guscio” non vuol dire proteggersi dal mondo, ma tenere fuori ogni sua meraviglia. A Dennis tornavano alla mente le parole di Cinzia nel messaggio di quella mattina: “..non c’è niente da capire…”, già, non c’è niente da capire, perché porsi domande inutili? Ciò che bisogna fare è solo “ascoltare” la voce del cuore e seguirlo dove ci conduce. Ogni cosa che si fa, si sceglie, si vive, ascoltandolo, non è mai inutile, mai vuoto, mai tempo sciupato e, soprattutto, mai una follia, seppur vivere con un pizzico di follia non è poi così male. Si stava così bene seduti sull’erba a guardare l’arcobaleno e a deliziarsi dello scroscio della cascata. Si sta meravigliosamente accanto ad una persona che, per la sola sua presenza, ti allieta l’esistenza. Tutto il resto può aspettare. Da adesso in poi ci saranno nuovi sogni da sognare, nuove speranze e nuove forze per superare ogni difficoltà che potrebbe sopraggiungere lungo il cammino, perché da adesso in poi affronteranno tutto insieme e non c’è bisogno di dir nulla, è bastato quell’abbraccio e guardarsi nel profondo dei loro sguardi, proprio lì dove parlava il cuore. Rita Veloce BUON SAN VALENTINO! |
Deliri Progressivi
... dalla penna facile... Fare clic per impostare HTML personalizzato
News
Marzo 2020
Categories
Tutti
|