
Giovedì 7 marzo – ore 21
Obihall (ex Saschall) - Firenze - biglietti 35/30/25 euro
Prevendite www.ticketone.it (tel. 892 101)
Prosegue il successo di “Dannato Vivere” dei NEGRITA. Dopo aver affrontato palasport sold-out e un infuocato tour estivo, la rock band si esibirà per la prima volta in assoluto nei teatri italiani. Trenta concerti su e giù per lo Stivale, in cui i NEGRITA eseguiranno non soltanto i classici cavalli di battaglia, e quelli dell’ultimo album “Dannato Vivere”, ma anche brani che da anni non vengono eseguiti dal vivo. Il tutto arrangiato e rivisitato in chiave teatrale per regalare uno spettacolo dal sound rinnovato, in una situazione intima e raccolta. Siete pronti a vedere NEGRITA come non li avete mai visti? Sedetevi comodi...
DANNATO VIVERE - Non è da tutti arrivare al nono disco senza aver paura della prova del nove, perché c’è una storia che parla per loro. Sempre allineati a niente, con il vento in faccia e la bussola del rock a indicare la strada. A tre anni da Helldorado, tornano i Negrita ed è un viaggio diverso, musicalmente e come attitudine, ma sempre da incorniciare.
Negli ultimi dischi erano stati i luoghi a influenzare il cammino e indicare il percorso. Subito dopo l’11 settembre, il mondo si chiudeva a riccio e i Negrita si aprivano ai viaggi e alle esplorazioni sonore, senza paura dell’altro e dell’altrove. Escursioni prima accennate, poi, negli ultimi due capitoli, più a fuoco. L’uomo sogna di volare accarezzava il Brasile rotolando verso sud; Helldorado fuggiva in Argentina per capire che rumore fa la felicità quando sei sintonizzato su Radio Conga. Stavolta è diverso. Dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti i Negrita hanno respirato di nuovo l’aria di casa: i suoni angloamericani, le figurine dei glory days del rock. Ed è nato Dannato vivere, un ritorno al levare e alla musica che ha nutrito i sogni adolescenziali di quattro ragazzi che crescevano a pane e rock, reggae e punk, pop e rhythm and blues. È come se i Negrita fossero saliti in soffitta a riaprire vecchi bauli dove riposavano da anni gli spiritelli giusti, i vecchi compagni di bevute, i maestri di suoni e visioni.
Anche da un punto di vista tematico, il salto è triplo. Se i capitoli precedenti puntavano il dito contro le storture e gli inganni, qui dominano la voglia del contatto e il desiderio del confronto. No, non si può parlare di vago ottimismo, semmai di consapevole fiducia, perché “il vento sta cambiando e il sole splende”, anche se a volte è difficile vederlo. Sono grida nel deserto quelle della band aretina, episodi isolati in un’epoca dove tutti cantano le nuvole e meriggi. Loro no, schiena e sogni dritti, senza per questo nascondere le difficoltà, perché la realtà è meravigliosa e terribile, ostica sia nei suoi risvolti sociali che nelle questioni private.
Tutto nasce al Sonic Ranch di El Paso, Texas, un anno fa. Molta musica e pochissimo testo. Pau “inchiodato come un’architrave, Drigo a cento all’ora”. Lo spirito del rock and roll a benedire quel jammare da cui nascono le idee e gli spunti che diventeranno canzoni. Poi si mette tutto via per far decantare. Si continua a viaggiare, per capire se l’America di Obama è davvero diversa da quella di Bush. Un attimo dopo è di nuovo Toscana, casa e studio. L’iter è sempre lo stesso. Si suona, si prova, s’inventa. Poi tutti a mangiare nell’altra stanza, con Cesare ottimo chef. Arriva il momento di ascoltare musica di altri, perché mica si può gettare l’ancora solo nel tuo porto. E alla fine si torna a suonare. Le idee “americane” trovano contorni più nitidi.
Pau improvvisa la melodia sulla musica e crea il ceppo compositivo, aprendo le porte al testo.
In questa griglia non rigida, ma ben definita, nascono pensieri e parole. “Il nostro è un lavoro vicino a quello che Mogol faceva con Battisti, sempre attento a cogliere l’essenza della melodia di Lucio”.
Disco dalla gestazione lunga, non per la difficoltà di far uscire le canzoni, ma per la voglia di non farsi mai mancare un nuovo abito. “La musica è un giocattolo. Deve arrivare qualcuno, un discografico o un manager, a togliercelo dalle mani, altrimenti si andrebbe avanti in eterno a giocare e gli album non uscirebbero più”. Per fortuna c’è il Barbacci, che asseconda ma che sa quando è ora di dire basta, visto si stampi.
Dannato vivere è una zattera che va. I Negrita si sforzano di fare domande senza dare risposte, perché la certezza non fa parte del bagaglio dell’artista. Quello che conta è insinuare un dubbio, un tarlo, siringare un punto interrogativo. Nessuna pretesa di essere dei portavoce di un malessere generazionale, anzi, sono loro stessi ad ammonire: “Forse sono solo un satellite fuori controllo o una porta che sbatte, una distrazione, un’aberrazione, un giubbotto di pelle nera fuori stagione.” Sì, ma a volte la rivoluzione parte da qui. Un disco dedicato a “chi è morto e non lo sa”. Perché finché c’è rock (e Negrita) c’è speranza..
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